L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’età degli imperi e il secolo breve

 di Stefano Ceccarelli

Il secolo breve”. Questo l’affascinante sottotitolo dell’ultimo concerto di Antonio Pappano all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. In un periodo in cui l’Accademia sta proponendo sempre più un repertorio del passato secolo, Pappano si profonde in uno dei lavori più singolari del “secolo breve”, il Concerto per violino e orchestra op. 36 di Arnold Schönberg. Certo l’espressione “secolo breve” era da Eric Hobsbawm usata per definire il vero Novecento, secolo dei fallimenti storici, aperto dal primo conflitto mondiale e chiuso dal disfacimento dell’URSS (1914-1991); il Prélude à l’après-midi d’un faune (1892-94) di Claude Debussy e la Messe de Requiem di Gabriel Fauré rientrerebbero nel periodo che Hobsbawm definiva “l’età degli imperi” (1875-1914): ma il loro spirito è già nel “secolo breve”.

ROMA, 25 gennaio 2016 – L’Accademia di Santa Cecilia, per l’ultimo concerto del maestro Antonio Pappano, sceglie una dotta citazione storica, tratta da The Age of Extremes. The Short Twentieth Century. 1914-1991 (1994), storico testo dell’inglese Eric Hobsbawm. Tre le opere in concerto: il Prélude di Debussy, il Concerto per violino di Schönberg e il Requiem di Fauré. L’intento di Pappano è quello di trascinarci dall’avanguardia impressionista a quella espressionista, per poi distenderci con un autore dall’aulico allure classico. Proprio di questo parla il maestro ad inizio concerto – come oramai sempre più fa, microfono alla mano. Debussy fu un innovatore nel pieno clima del wagnerismo e del tardoromanticismo; Schönberg, perseguitato dal nazismo e emigrato negli USA, aveva sperimentato addirittura una rivoluzione atonale era diventato il capostipite del movimento dodecafonico. Pappano incomincia col Prélude à l’après-midi d’un faune: poco più di cento anni separano la sua esecuzione da quella che lo stesso Debussy tenne all’Accademia (era il 1914). L’orchestra è tarata perfettamente: il suono sgorga limpido, terso, fin dall’assolo del flauto (bravissimo Andrea Oliva), trattato con schiettezza primitivista, che dà origini al rigoglioso tripudio di melodie dal vago sapore esotico, cangianti, sofisticate, melodismi di cui Debussy fu maestro indiscusso. Pappano si fa trascinare e immergere nel mondo poetico e fiabesco di Mallarmé, ma tiene una direzione asciutta, aderente all’agogica, poco indulgente in attimi estatici (evidente la lezione di Boulez): non siamo nelle atmosfere indugianti di un Bernstein, o nelle mezzetinte di un Karajan; come non siamo nell’aurea medietas di Abbado. Una lettura aderente, mai secca però, né insensata, dove le iridescenze, le screziature dell’orchestrazione si sposano col gusto primitivista, decadente delle tonalità debussiane. Il salto con il Concerto per violino e orchestra di Schönberg è siderale – il pubblico un po’ ne risente, per quel pregiudizio che ancora ammanta la dodecafonia: un peccato, giacché Michael Barenboim ne è uno dei migliori interpreti al mondo. Per un violinista, questo concerto è ai limiti dell’eseguibilità (come i contemporanei di Schönberg avevano a criticare). Barenboim riesce a spaginarne tutte le difficoltà, con piglio umile e vigile: l’intonazione perennemente periclitante, i glissandi, i salti, le asprezze, le (seppur ponderate) dissonanze, devono essere perfettamente calibrati. Proprio nella cadenza del violinista (Poco Allegro, I) Barenboim ci mostra il suo virtuosismo. Pappano lo segue nelle maglie complesse di un’orchestrazione a blocchi seriali perfettamente disposti, che lascia poco spazio all’interpretazione personale. L’Andante grazioso (II) è uno strizzar d’occhio dell’austriaco alla tradizione. Barenboim fa bene a evocare atmosfere mediante il sapiente uso volumetrico del suono: sono, comunque, atmosfere di un lirismo allucinato. I glissandi dissonanti pullulano in una scrittura che non si abbandona mai genuinamente alla tradizione melodica occidentale: la melodia è lo spettro di sé stessa. Barenboim è bravo a terminare il concerto affrontando degnamente l’ethos irrequieto, ironico del III (Allegro). Una scrittura ai limiti della schizofrenia, irrigidita in cellule ritmiche che sembrano derivare dalle rapsodie; dopo una seconda cadenza, il tutto termina con un fendente orchestrale. Un’opera difficile, per palati veramente raffinati, capaci di andar oltre il mero piacere sensoriale e uditivo della tradizione musicale occidentale. Barenboim è sfinito: ringrazia i timidi plaudenti, senza concedere bis.

Il secondo tempo è dedicato alla classicità: la Messe de Requiem di Gabriel Fauré, pura e celestiale come poche partiture, eppur nata da uno spirito praticamente agnostico. I protagonisti indiscussi sono l’orchestra e il coro dell’Accademia, che ci regalano magie e prodezze sublimi. Della qualità del coro degli accademici ho più volte parlato, tessendone elogi sempre meritati: e non deludono neanche questa volta: sono capaci della nota più flebile, ma compatta nell’insieme delle parti vocali, come dell’exploit più potente. Il filato iniziale sul Requiem aeternam è centratissimo, e porta a una sezione che esplode sull’«exaudi orationem meam» cui segue una magnifica dilatazione sonora, con annesso diminuendo. Il fraseggio del successivo canone (O Domine, Jesu Christe) è encomiabile; come non emozionarsi, poi, all’esecuzione ricca di trasporto del delicatissimo Agnus Dei? Una flautata melodia, che culmina nel magnifico filato del «Lux aeterna luceat eis». La vera potenza del coro si esplica nel «Dies irae» del Tremens factus sum, squarcio apocalittico di un’accorata orazione. Pappano dirige tutto magnificamente, donando smalto e vitalità a una partitura pulsante. I momenti che si fanno più apprezzare sono gli squarci estatici: il paradisiaco Sanctus, che si chiude con accenti epici e un notevole trillo/tremolo della compagine dei violini; e i suadenti accordi dell’arpa nell’In Paradisum, che si librano su un vapore orchestrale e aprono le porte dell’empireo – con quale dolcezza il coro femminile rischiara l’horror vacui della morte. Non eccelso il Pie Jesu di Lisette Oropesa: il timbro argentino e vibrato sarebbe anche adatto, ma l’interpretazione è un po’ troppo calcata e l’emissione, soprattutto all’inizio delle frasi, non è sempre pulita. Ottimo Vito Priante – a Roma per cantare in uno dei cast della Cenerentola rossiniana ora in scena al Teatro dell’Opera di Roma. L’Hostias è cantato tutto a mezza voce, sciogliendo il naturale vibrato della sua corda vocale: l’effetto è onirico e anticheggiante. La linea è tutta sul fiato, elegante. Nel Libera me è bravo a giocare coi chiaroscuri dell’unico pezzo cupo dell’intera partitura: apre la voce, stringe il vibrato, rende drammatica l’esecuzione. Gli applausi finali suggellano un’ottima serata di musica.

 


 

 

 
 
 

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