L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Luci mie traditrici al Comunale di Bologna

Quel che resta del madrigale

 di Roberta Pedrotti

Dopo il debutto italiano in forma di concerto (Torino 2002), e l'allestimento del 2010 a Montepulciano, per la prima volta una fondazione lirica italiana realizza - insieme con la Staatsoper di Berlino - una produzione di Luci mie traditrici, uno dei lavori più rappresentativi e più rappresentati nel mondo di Salvatore Sciarrino. La qualità dello spettacolo è eccellente.

BOLOGNA, 14 giugno 2016 - In principio era il madrigale. Le voci, imprigionate nella polifonia, non possono divenire personaggi, ma si scambiano versi e gesti sonori, costruiscono una drammaturgia alienata in cui l'oggetto si rispecchia rimbalzando da una linea all'altra nella polifonia. In principio era quel madrigale che non s'era fatto parente stretto del melodramma in forme rappresentative o dialogiche.

Qui la drammaturgia prende una strada diversa, alternativa, ed è proprio la strada delle voci del madrigale che s'intrecciano, si contrappongono, cercano corpo e vita tendendo all'estremo i loro rapporti fino alla dissoluzione di quello stesso linguaggio. Questa, in sintesi, può essere Luci mie traditrici di Salvatore Sciarrino, un gioco teatrale d'illusioni, iterazioni, tempi sospesi nei quali il dramma, il delitto è sempre presente, ma prende forma disgregando man mano le voci madrigalistiche nelle quali si riflette.

Prendono i nomi, le voci, e le maschere della duchessa Malaspina (soprano), dell'Ospite suo amante e della Voce esterna che fa da prologo (alti), del Servo innamorato deluso e delatore (tenore), del duca Malaspina (baritono), si esprimono in una costruzione musicale che astrae lo stesso madrigalismo, come gesto sonoro concreto cui la stessa parola cantata deve soggiacere, quale elemento basilare della partitura. Sciarrino plasma, letteralmente, questi elementi con una fisicità teatrale antirealistica che è la condanna e la ragion d'essere dei suoi personaggi, figure distillate quasi violentemente dall'alfabeto musicale e poetico (il libretto, ridotto a frammenti men che essenziali, deriva dal Tradimento per l'onore, dramma attribuito al Cicognini) del XVII secolo, prive di una vera identità, costretti nella condizione spettrale dei loro ruoli nella poetica madrigalistica: Malaspina è l'unico nome reso noto, il casato diviene speculare, inconciliabile sovrapposizione fra i due sposi e simbolo stesso della tragedia. La pièce, infatti si apre con la donna ferita dalle rose donategli dal marito, con la fierezza di lei, noncurante e quasi compiaciuta dalla puntura, e la debolezza di lui, che sviene alla vista del sangue di lei; lo stesso sangue, infine, sarà versato dal duca, come posseduto da un demone inesorabile nella ferocia sorta dalla fragilità, dall'incapacità di perdonare realmente il tradimento, di confrontarsi con la donna e le sue professioni di sincero pentimento.

Dalla spina della rosa, omaggio d'amore, alla ferita dell'anima che fa dell'amore un delitto, i piani di questa drammaturgia musicale plastica, fisica, si sovrappongono, reiterano, intrecciano fino a sfaldarsi nella tensione del confronto. Si tratta di una forma di teatro che costeggia il melodramma, talora vi allude (ecco che dalla scarnificazione dei versi secenteschi spunta un “Nume, grazie vi rendo” che ammicca al “Mio duce, grazie vi rendo” dello Iago di Verdi e Boito, così come il “vigilate” sibilato dal Malaspina al Servo che gli ha instillato il veleno della gelosia), ma segue una propria via, che, peraltro, la regia di Jürgen Flimm coglie e realizza perfettamente. Siamo rinchiusi in un salotto borghese che ben presto, grazie alle luci di Irene Selka, si farà sempre più allucinato e claustrofobico, fino a infrangere l'illusione di questo piccolo mondo antico ottocentesco. La, generica, collocazione nel XIX secolo aiuta a cristallizzare le convenzioni sociali che imprigionano le voci nelle maschere, ma anche a rievocare il mito romantico di Gesualdo, principe madrigalista uxoricida e artista maudit per eccellenza, già additato come motivo ispiratore del soggetto (tratto, oltre che dallo pseudo-Cicognini, dai versi del fiammingo Claude Le Jeune, 1530-1600, utilizzati per il prologo).

La cura meticolosa dell'azione teatrale mette in perfetta simbiosi specularità e iterazione del gesto fisico con iterazioni e specularità dei madrigalismi sciarriniani, in un crescendo di tensione che culmina con il finale, in cui il Malaspina, carnefice per la sua debolezza emotiva, trova la sua spietata risoluzione camuffando se stesso in vesti di demone fatale e vendicatore, tragico e plateale mascheramento teatrale che fa il paio con lo sfaldarsi della scena, il suo svelare ambienti sempre identici su un palco, in fondo, nudo. Certo, l'effetto della trasfigurazione del fragile duca non avrebbe mai potuto essere tale senza un artista del calibro di Otto Katzameier, non per nulla il cantante-feticcio di Sciarrino, interprete d'elezione di molti suoi lavori.

Anche il più accanito dispregiatore di questa plastica disgregazione del recitar cantando non potrà non ammetterne la difficoltà e non ammirare la duttilità vocale, la precisione musicale, l'incisività espressiva, il multiforme ingegno teatrale, l'arte scenica e il carisma del baritono tedesco.

Nondimeno, Katharina Kammerloher è una Malaspina tagliente e ambigua, perfetta controparte del marito in un perturbante epilogo; Lena Haselmann un Ospite (en travesti, in luogo del più consueto contraltista) dal fascino sottilmente enigmatico ed equivoco; Christian Oldenburg caratterizza un Servo duro e sfuggente. Come si loderà in un cast di lingua tedesca la buona resa di un testo italiano pur frammentato e destrutturato, così si elogerà l'impegno proficuo delle voci bianche del Comunale preparate da Alhambra Superchi nel prologo, solitamente affidato a un unico solista adulto. I complimenti ai giovanissimi musicisti si estendono inevitabilmente a un'orchestra sempre più sorprendente per la disinvolta confidenza acquisita con il repertorio contemporaneo. Merito, naturalmente, della bacchetta impeccabile di Marco Angius, devoto e assiduo interprete sciarriniano al pari di Katzameier, ma anche frutto del prezioso lavoro di stabilizzazione nei cartelloni del Comunale della produzione degli ultimi decenni. E poiché non di sole prime assolute si può vivere, ben vengano riprese di titoli, come Luci mie traditrici, che dovrebbero essere ormai classici dei tempi recenti.

Una novità è sempre un'incognita, è lapalissiano, e potrà deludere o superare le aspettative; come qualsivoglia altro genere e repertorio, quello contemporaneo avrà curiosi, appassionati o detrattori, ma varrà sempre la pena di proporre debutti e lavori d'ogni tempo, di farlo con convinzione e ricercando la massima qualità, come è avvenuto in questo caso. Il risultato si è visto: teatro non esaurito, ma nemmeno desolato, alla prima una manciata di abbandoni a metà spettacolo (della durata complessiva di un'ora e dieci), ma anche molti, prolungati applausi, sorrisi convinti e compiaciuti, acclamazioni per l'autore, anch'egli decisamente soddisfatto, gli interpreti (con Flimm e la citata Selka anche l'ottimo dramaturg Detlef Giese, la scenografa Annette Murschetz, la costumista Birgit Wentsch e la coreografa Carola Tautz).

foto Rocco Casaluci


 

 

 
 
 

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