Quel 'giovane' e magico Flauto
di Pietro Gandetto
Nuova produzione di Die Zauberflöte con i giovani artisti dell’Accademia del Teatro alla Scala diretti dal regista Peter Stein. L’elegante concertazione di Fischer sposa un cast vocale pressoché omogeneo per qualità, materiale e spunti individuali.
Milano, 4 settembre 2016 – Forse è vero quel proverbio che dice: “C’è una sola grande moda: la gioventù”. Quantomeno appare veritiero per questa nuova produzione di Die Zauberflöte frutto della collaborazione tra il Teatro alla Scala, l’omonima Accademia di Canto e il grande guru della regia Peter Stein, prima tappa di un ambizioso progetto che prevede un percorso annuale di formazione degli artisti dell’Accademia per il debutto sul “grande” palco del Piermarini. Con questo primo appuntamento, si realizza il sogno di Peter Stein di una Zauberflöte riportata all’essenza del Singspiel, in cui la recitazione teatrale affianca quella musicale con pari dignità: giovani cantanti che recitano i dialoghi in un tedesco senza accenti, come se fosse un vero spettacolo di prosa in seno a quello musicale.
La regia di Stein scioglie uno dei nodi gordiani che più duramente cinge il capolavoro mozartiano, trovando un punto di equilibrio tra la nota dicotomia zauberflötiana tra fiaba e filosofia. Con Stein, Die Zauberflöte non è né fiaba onirica, né saggio filosofico. Non è né commedia, né dramma. È una fase di passaggio, trasformazione e rigenerazione. Ma niente paura, ché qui non si assiste a una rigenerazione moraleggiante tesa all’insegnamento di qualcosa a qualcuno: Tamino segue un percoso autonomo per diventare un buon sovrano. E ci riesce. Così il pubblico s’immedesima in Tamino, nell’accettazione della mutevolezza delle emozioni e della vita. Inizialmente, la situazione è simpatica e leggera, ma poi si capisce che le cose non stanno esattamente così. Da madre ferita, la Regina della Notte si trasforma in malvagia arpia smaniosa di conquista. Da rapitore spietato, Sarastro si rivela un uomo giusto ed equilibrato. Ci sono piramidi e simboli ovunque, a ricordarci i topoi massonici di rigenerazione morale politica e sociale tanto cari a Mozart e al librettista Schikaneder. I movimenti registici sono calibrati in funzione dell’ambivalenza tra sogno e realtà che caratterizza l’ultima opera mozartiana. E proprio nei momenti di più crudo realismo, i tre fanciulli giungono in volo a guidare Tamino e Papageno nelle loro prove, facendo anche desistere Pamina dal suicidio: sono angioletti della natura, tipici esempi della tradizione magico-folkloristica medievale.
Le scene di Ferdinand Wögerbauer sono appaganti nella loro semplicità, che non è mai rinunciataria. Predominano palme esotiche e colori caldi come il giallo, l’arancio e il rosso nel registro fiabesco e nel regno del giorno. Abbondano di contro le tinte fredde come il blu, l’azzurro e il nero nei registri cupi della notte, dove le forze del male ordiscono le loro trame. Evidenti i richiami all’Aida di Stein del 2015 (leggi la recensione) nelle scene del coro, diretto Johannes Stecher, che sembrano, ognuna, micro scene del giudizio verdiane. Vi si ritrova la stessa statica ieraticità, i medesimi copricapi in stile Star Treck e le lunghe tuniche bianche. Completano le analogie con l’Aida del 2015 le luci di Joachim Barth, sapienti nel racconto della lotta del bene sul male.
Il rito iniziatico non è solo il nucleo drammaturgico cui si sottopongono Tamino, Papageno e gli altri personaggi dell’opera, ma la vera e propria prova in cui si cimentano i valenti solisti dell’Accademia, quasi tutti debuttanti sul palco del Piermarini.
Su tutti, primeggia il contributo di Martin Piskorski. Classe 1988, il giovane tenore austriaco sfoggia un’emissione omogenea e sicura che non ha nulla da invidiare a molti professionisti in carriera che calcano il palcoscenico del Tempio. La vocalità corposa e adamantina e l’indubbio fascino (non solo vocale) conferiscono credibilità al ruolo: con il dovuto affinamento dello strumento, che ci auguriamo uno studio costante saprà apportare, la strada di Martin Piskorski sarà tutta in ascesa.
Performance da cantante in carriera, anche quella di Till Von Orlowsky nel ruolo di Papageno. Vero attore, il suo Papageno non degenera mai nel macchiettismo e il personaggio resta protagonista della vivace ed elegante ironia che caratterizza questa produzione. Buona anche la performance di Martin Summer nei panni di Sarastro: solennità sacerdotale e vocalità calda e ampia, a eccezione di una certa debolezza nelle note gravi, quasi impercettibili –prerogativa essenziale del basso profondo– il registro centrale ha una proiezione e un fraseggio di pregio.
Tra le voci femminili si segnala quella di Fatma Said: già ascoltato nella prima assoluta di CO2 di Battistelli nella scorsa stagione (leggi la recensione), il soprano egiziano plasma una Pamina incantevole, espressiva, ma senza troppi piagnistei. La linea vocale si caratterizza per un’emissione morbida e una buona intensità lirica. Meno entusiasmante il contributo di Yasmin Özkan nella Regina della Notte. Anzitutto non giova alle caratteristiche della sua (ancor esile) voce, la discutibile scelta di farle cantare la prima parte di "O zittre nicht" in cima alla montagna in fondo al palcoscenico. A parte ciò, la prima aria è ben gestita soprattutto nella resa del lato umano di una madre straziata dal dolore, in linea con l’evoluzione del personaggio rimarcata da Stein. Con "Der Hölle Rache", però, il pur dovuto appoggio del fiato è ricercato con un appesantimento nella gestione del registro acuto e sovracuto (che diventa querulo e privo di nerbo), non tanto nei fa, quanto nei do, slegati e disomogenei.
Il resto del cast è di rilievo. Il Monostatos di Sascha Emanuel Kramer è in generale fluido e divertente, a eccezione dell’aria "Alles fult der lieber freuden", in cui la verve si spegne di pari passo con la voce, che diventa più ovattata. Si apprezza la naturalezza espositiva dell’Oratore/Primo Sacerdote di Philipp Jekal. Le tre Dame di Elissa Huber, Kristin Sveinsdottír e Mareike Jankowski ben hanno reso l’evoluzione da devote salvatrici del principe Tamino ad aguzzine tentatrici, complici della loro Regina nella distruzione di Sarastro. Completavano il cast i tre genietti di Moritz Plieger, Clemens Schmidt e Raphael Eysmair e la Papagena di Theresa Zisser.
La direzione di Ádám Fischer, direttore mozartiano di riferimento, appare in linea con l’idea registica sottesa allo spettacolo che ruota intorno all’ambivalenza e al mistero della Zauberflöte. Il concertatore riesce a far dire all’orchestra cose serissime con toni semplici e affabili, come si confà alle migliori esecuzioni del Salisburghese. Un punto di equilibro tra sonorità meditative e più leggero e scherzose, il tutto all’insegna della trasparenza e della leggerezza d’insieme.
foto Accademia