L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

prometeo di luigi nono a parma, Marco angius direttore

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 di Roberta Pedrotti

Ardito e affascinante ritorno al recente passato dell'estrema avanguardia musicale con Prometeo. Tragedia dell'ascolto di Luigi Nono per la stagione lirica del Regio di Parma. Una proposta intellettuale stimolante in una realizzazione d'alto profilo.

PARMA, 26 maggio 2017 - Πολλῶν ὀνομάτων μορφή μία, di molti nomi una sola forma. La definizione di Gea, la Terra, nel Prometeo incatenato di Eschilo riecheggia l’essenza del Prometeo di Luigi Nono, forma unica e sfuggente che riposa nell’ampiezza semantica delle sue possibili definizioni. Non è opera, nel senso tradizionale di dramma in musica, ma è opus senz’altro, nel senso latino di lavoro, di creazione; è un’esperienza teatrale, ma del teatro ridimensiona ai minimi termini proprio il senso cui è etimologicamente legato (da θεάομαι, theàomai, “guardo”) privilegiando semmai sulla vista la percezione della spazialità, connessa più al tatto e, soprattutto, all’udito. L’appello che rimbalza ciclicamente nelle voci, “Ascolta”, esplicita il senso del nome: Prometeo è una Tragedia dell’ascolto e tutto si sviluppa nel puro suono, non in un dramma, una narrazione, in un testo lineare. Il senso del tragico, del nodo senza possibilità di risoluzione se non nella catastrofe, coincide allora con l’atto di ascoltare, nell’esperienza di un suono che pare sfaldarsi, infrangersi, rimbalzare, muoversi nello spazio quasi dissolto in una nube o raggrumato in singole cellule, quasi monadi. Il suono come il testo, che dall’elaborazione ipercolta di Massimo Cacciari (fitta di citazioni di Esiodo, Saffo, Pindaro, Erodoto, Eschilo, Sofocle, Euripide, Goethe, Hölderlin, Nietzsche, Benjamin, Schönberg) si sbriciola e si si scompone in fonemi, sillabe, frammenti disarticolati, svuotati di senso per incarnarne uno nuovo, mutevole, come proveniente da un altro tempo, fuori dal tempo. Ecco dunque che la tragedia che si consuma nell’ascolto, consiste nell’esperienza del suono, prende il nome di Prometeo, "colui che sa prevedere" e che quindi si proietta avanti nel tempo, complementare e opposto al fratello Epimeteo, "che comprende poi". Il presente resta inafferrabile e lo slancio verso il futuro è la condanna di Prometeo, incatenato alla materia per aver voluto, lui troppo sapiente, portare all’uomo la fiamma l’emancipazione e del progresso. La musica, arte per eccellenza della manipolazione del tempo, si identifica nella tragedia di Prometeo, in questa condanna, e si rifrange come in una sorta di sacco amniotico astratto dal tempo come noi lo conosciamo, in cui durate, ritmi, metri, pulsazioni, quel che fu che è e che sarà convivono, s’intrecciano, si riverberano l’uno nell’altro, annullandosi o ricreandosi come il suono stesso, la nota, il fonema, la parola lacerata.

Prometeo. Tragedia dell’ascolto è, dunque, la tragedia del tempo e dell’intelletto che si identifica nell’atto – tragico perché privo di soluzione – di un suono reso di per sé drammaturgia trascendente e immanente. È un’opera singolare, ambiziosa, il punto estremo di una sperimentazione e, quindi, di per sé tragica: un punto di non ritorno, l’espressione audace e irrisolvibile di un artista. In quanto tale si rivolge a un interlocutore ideale, che non necessariamente dovrà farsi reale: questa dolorosa elaborazione di tempo e suono è il frutto, forse paradossale, di un hic et nunc, di un incontro fra artisti e intellettuali (nella fattispece, Nono, Cacciari, Piano e Vedova), di un percorso di avanguardie e sperimentazioni che si dibatte nel disagio di un’incombente stagnazione, nell’ansia di esprimersi toccando quell’inafferrabile meta all’orizzonte. Non è, non può essere e non deve essere musica “facile”: risponde al bisogno dell’artista più che a un suo effettivo dialogo del pubblico, per lo meno con un pubblico più vasto. Resta, inevitabilmente, più esoterica che essoterica , ma come tale val la pena conoscerla, sia per l’esperienza storica di questo peculiare slancio artistico – quasi un folle volo dantesco – sia per saggiare lo straniamento di questo percorso di oltre due ore in un suono acquatico che solletica la nostra soglia d’attenzione avvolgendola senza metterla alla prova.

Non ci illudiamo che questa chiusura della stagione lirica del Regio di Parma possa essere popolare (come invece altra produzione del secolo appena trascorso dovrebbe inequivocabilmente esser considerata), ma lo scopo di un teatro non è ammanire il noto lusingando l’abitudine, bensì fare cultura, muovere al dibattito, alla consapevolezza, anche di esperienze sperimentali così peculiari e circoscritte, tanto più che Prometeo è, sì, un unicum, ma un unicum che raccoglie, onnivoro, gli stimoli di antiche prassi e polifonie sacre e profane, le ricerche di chi ha osato in musica fino a quel momento, gli orizzonti della tecnologia, allora tali da far sognare la fantascienza e oggi già superati oltre ogni aspettativa.

Per far questo, a Parma si realizza un lavoro egregio, non solo per la ricchezza di iniziative collaterali, incontri e approfondimenti, ma anche e soprattutto nel concreto dell’esecuzione, pure preceduta da una breve prolusione del m° Angius: il Teatro Farnese, così ostico per l’opera tradizionale, offre le sue ampiezze alla modulazione spaziale dei diversi complessi strumentali e vocali, nonché un’acustica tanto asciutta da lasciare piena libertà alla necessaria elaborazione e amplificazione elettronica. Proprio la questione dell’intervento tecnologico, unito alla distribuzione in sala degli esecutori, immagine tangibile di diversi piani temporali e delle sequenze in cui si sviluppa il testo, pone il problema della fedeltà al testo, giacché il Prometeo non può essere fissato in partitura, almeno non completamente, vivendo ogni volta in uno spazio preciso. Il paradosso dell’opera senza tempo incatenata a un tempo preciso è preso in carico coscienziosamente in una produzione che si rifà, per la prima volta, a una nuova edizione critica curata da André Richard e Marco Mazzolini per l’Archivio Luigi Nono di Venezia. La filologia esiste anche per la produzione degli ultimi decenni, ripropone antichi problemi e cerca di rispondere a nuove, specifiche questioni; sta poi a Marco Angius sul podio farne materia viva e difficilmente potremmo pensare a una scelta più felice per concertare il lavoro di Nono del maestro che, senza sdegnare anche l’opera dell’800, più di ogni altro in Italia si è consacrato con passione e competenza al repertorio del XX e XXI secolo.

Tutto si muove con cura e precisione, e non è difficile scorgere un’ardente partecipazione nella dedizione di tutti gli interpreti a questi arditissimi incastri sonori. Per questo val la pena di citare con lodi equamente distribuite i solisti (Livia Rado e Alda Caiello, soprani, Katarzyna Otczyk e Silvia Regazzo, contralti, Marco Rencinai, tenore) e gli attori (Sergio Basile e Manuela Mandracchia), ma anche i sedici elementi del Coro del Regio preparato sempre da Martino Faggiani, il sestetto dell’Ensemble Prometeo (archi, clarinetto e tuba), la Filarmonica Arturo Toscanini, il concertatore assistente Caterina Centofante, due luminari del Live electronics come Alvise Vidolin e Nicola Bernardini.

In sala vi sono testimoni della prima assoluta veneziana del 1984 (annunciato ufficialmente Massimo Cacciari, ma è facile scommettere almeno anche su Nuria Schönberg Nono, in città per la conferenza di presentazione), una buona fetta di pubblico motivato, attento e concentrato, qualcun altro che cede e abbandona durante lo spettacolo. Un rischio calcolato che fa parte di un gioco che non per questo non val la pena di giocare. Anzi.

foto Roberto Ricci


 

 

 
 
 

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