L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La saggezza dei vent'anni

 di Roberta Pedrotti

Per il quarto appuntamento di Pianofortissimo 2017, al suo debutto italiano, Aaron Pilsan, classe 1995, di dimostra un concertista nato, dotato di un notevolissimo potenziale e della maturità per svilupparlo appieno.

BOLOGNa, 29 giugno 2017 - Ha ventidue anni, Aaron Pilsan, ma già l’allure del concertista nato. Una qualità che va al di là dell’esperienza: molto si può imparare con il tempo, ma c’è chi, da subito, pare un predestinato e questo ragazzo senz’altro lo è: elegante ma non affettato, serio ma non serioso, composto ma non impettito, sciorina la Suite Francese n. 1 in re minore BWV 812 di Bach con invidiabile scioltezza.

Anche quando stacca i tempi più rapidi, più cembalistici che pianistici, non perde mai di vista la rotondità del suono e l’esattezza dell’articolazione. L’elasticità dinamica si distribuisce sapientemente fra le cinque danze, soppesando una varietà ben meditata, sorvegliata nel gusto per suggerire oggi e con uno strumento moderno echi barocchi e galanti. È ben chiara una riflessione stilistica per un Bach rigoroso e personale, è ben chiara la maturità dell’approccio, premessa, data l’età del pianista, a sbocchi futuri da seguire senz’altro con interesse.

Con un balzo in avanti di due secoli si passa alla Suite n. 3 op. 18 “Pièces impromptues” di Enescu, i cui sette movimenti denotano in Pilsan una sensibilità poetica spiccata e ben controllata, in grado di dipanare con lucidità il clima surreale e rarefatto del compositore rumeno, fino al culmine del Carillon notturno, in cui le corde sono lasciate libere di risuonare per simpatia, creando una nebulosa di armonici nella quale, tuttavia, il giovane austriaco riesce a far risuonare ben nette le singole note, preservando l’atmosfera lungi da ogni confusione.

La seconda parte del concerto è tutta consacrata alla Sonata n. 19 in do minore D 958 di Schubert, cimento per interpreti consumati, un punto di arrivo più che di partenza nel quale, tuttavia, Pilsan ribadisce di non essere un semplice enfant prodige e di non arrischiarsi a fare il classico passo più lungo della gamba. È un pianista giovane, sì, in divenire, certo, ma serissimo nell’approccio, già maturo nella ricerca di una visione d’insieme chiara e concreta, come si avverte nel controllo impeccabile di un suono sempre ben raccolto e presente, nell’accorta amministrazione del pedale, nei rapporti agogici, metrici e ritmici ben ponderati, nell’eleganza di un fraseggio sensibile e ispirato, nella piena intelligibilità delle strutture. Ancora una volta la sensazione rassicurante di maturità va di pari passo con la prospettiva di sviluppi e approfondimenti futuri, di un potenziale ben amministrato e destinato a non esaurirsi in un bell’esordio di carriera.

Tre i graditissimi bis, primo fra tutti un Arabesque di Schumann notevolissimo per arte del rubato e del chiaroscuro, seguito poi da due studi di Chopin limpido sigillo di tanta fresca, giovanile, raffinata saggezza.

Il pubblico applaude convinto e annota (mentalmente o con dei vistosi cerchi sul programma di sala) il nome di Aaron Pilsan.


 

 

 
 
 

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