L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’eleganza di Blechacz

 di Stefano Ceccarelli

All’Accademia di Santa Cecilia torna Rafal Blechacz, un appuntamento oramai quasi fisso per gli abbonati e gli amanti della musica da camera per pianoforte. Il polacco presenta un concerto che è un equilibratissimo dittico. Nel primo tempo: Quattro duetti BWV 802-805 di Johann Sebastian Bach, il Rondò in sol maggiore op. 51 n. 2 e la Sonata in do maggiore op. 2 n. 3 di Ludwig van Beethoven. Nel secondo, tre pezzi di Fryderyk Chopin: la Fantasia in fa minore op. 49, il Notturno in fa diesis minore op. 48 n. 2 e la Sonata n. 2 in si bemolle minore op. 35. In perfetta Ringkomposition, si ritorna a Bach nel bis. Gli applausi sono fragorosi e accompagnano tutti i pezzi.

ROMA, 20 novembre 2017 – Il polacco Rafal Blechacz torna a suonare nella sala Santa Cecilia. I suoi appuntamenti stanno diventando, per abbonati e appassionati, un punto fermo nella stagione dei recital pianistici; e Blechacz diventa, devo dire, sempre più sensibile e bravo.

Il programma del concerto, diviso in due classici tempi, è strutturato con maestria: a due composizioni d’apertura, segue un pezzo più breve di passaggio, per poi arrivare a un’intera sonata. Bach apre tutto il concerto (e lo chiude, come vedremo); poi tocca a Beethoven; infine, il suo amato Chopin, non solo per sangue, ma anche per spirito. Con un’andatura composta, quasi timida, il polacco arriva allo strumento e vi si siede, attaccando i Quattro duetti di Bach. Ecco che risaltano, cristalline, le sue doti precipue: tocco, sensibilità ai colori, tersa pulizia del suono, ordinata gestione delle dinamiche. Blechacz è un pianista apollineo; e ne godiamo i bagliori solari in questi duetti bachiani, di smagliante invenzione, dove il rigore di ogni nota si mescola vuoi a una calda cantabilità (III), vuoi a un maggior rigore geometrico (II e IV), vuoi a una maggiore drammaticità (I). Caldissimi applausi fanno già capire che il pubblico adora il polacco: Blechacz è un artista, peraltro, molto intelligente, come ci dimostra il pezzo successivo. Un Rondò di Beethoven: un pezzo perfetto per le sue corde. Blechacz, infatti, centra subito il colore del brano, quella «malinconia cullante» (S. Ciolfi, dal programma di sala) che impregna il pezzo a dispetto dell’eleganza dei gruppetti, dei trilli, delle fioriture, tutte magnificamente eseguite dalla sublime tecnica del polacco, che esalta gli elementi beethoveniani in un Beethoven (per parafrasare un noto studio su Plauto) ancora passatista, senza però mortificare il gusto volutamente retrò del brano. Come degna continuazione, ecco la Sonata op. 2, n. 3, sempre di stile profondamente settecentesco, che amplifica e dilata quel precipuo gusto beethoveniano già ascoltato nel precedente Rondò. Finalmente Blechacz ci fa assaggiare anche una lettura più drammatica, più virtuosistica, adatta alle dinamiche e ai colori del I movimento (alla fine, infatti, il pubblico non si riesce a trattenere da un immediatamente abortito applauso, ma di cuore). La vividezza con cui Blechacz rende la malinconia del II è impressionante; con quale piglio, poi, con quale agilità, dosando sapientemente i colori, legge il vivacissimo Scherzo (III), non scordandosi certo di esaltare la pura ritmicità del trio. Il puro virtuosismo del IV porta a un applauso calorosissimo, con diversi bravo.

Il secondo tempo, speculare strutturalmente al primo, è però dedicato interamente all’amore di Blechacz, il suo Chopin. Si apre con la Fantasia in fa minore. Blechacz riesce a trascolorare con sentimento e perizia dalle zone d’ombra, a ritmo vagamente marziale (si veda l’incipit), fino ai giochi con gli acuti, sentimentali. Blechacz ci fa anche ascoltare il suo ‘percussionismo’, sempre misurato, mai troppo esagerato, sempre composto, attento ai giochi di volume. Poi il polacco attacca il Notturno op. 48, n. 2: ecco che il pianista riesce a donare grande vividezza a questa elegia sopra qualcosa di ignoto. Morbidissimo il procedere nel melanconico universo della linea melodica; poi il passaggio al recitativo che Blechacz scolpisce con la più tenera incisività; poi ecco, nuovamente, il vago romantico e la chiusa nell’universo indefinito, tipico del notturno. Chiude il secondo tempo la stupenda Sonata n. 2. Blechacz è ormai caldo: è profondamente annegato nella psicologia musicale di Chopin, quasi in trance. Il I movimento, infatti, risuona d’una intensità sconosciuta al resto della serata: la complessità del discorso (titanico, quasi, per gli standard chopiniani) è reso con risoluta energia, perizia e pulizia tecnica. Lo Scherzo (II) è tutto teso alla sintesi di una rarefatta e quasi allucinata atmosfera, che si dirige brevemente verso l’oasi del trio, per poi ripiombare nell’allucinazione. Veramente incredibile la ieraticità che Blechacz è in grado di profondere nella Marcia funebre (III), che si muove con lenta, macabra decisione. Tale mortifero incanto è spezzato da una sorta di notturno in miniatura, che non arresta il ripiombare nel funereo letto della morte: stupendo il passaggio/cerniera, dove Blechacz ci mostra ancora una volta la sua abilità di colorista. L’ultimo movimento (IV), che ci mostra l’impressionante velocità d’esecuzione del polacco, nei suoi fulminei scatti evoca quasi un’anima tormentata che si diparte dal suo corpo. Gli applausi sono calorosissimi. Il concerto rimarrà nella memoria di chi l’ha ascoltato, e a lungo: Blechacz non ha paura di mettere sul piatto composizioni anche molto note, rileggendole con una grazia quasi casta. Dal sacro, infatti, pesca il suo bis (non casuale, certo: è fra i pezzi incisi in un suo recente cd): la versione per pianoforte del celeberrimo corale “Jesus, bleibet meine Freude” (dalla cantata BWV 147), che mi fa cadere più di una lacrima.

 


 

 

 
 
 

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