L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Juan Diego Florez, Christiane Karg

Scala, Flórez, Gluck; senza divertissement

 di Francesco Lora

In Orphée et Eurydice proveniente dal Covent Garden di Londra, i registi affondano la smaliziata cultura all’origine dell’opera nel segno di un monotono, pessimistico e inesorabile pianto ciclico. La lettura musicale di Mariotti esce danneggiata dall’impianto scenografico, mentre Flórez è protagonista lussuoso ma inadeguato a una parte di haute-contre.

MILANO, 28 febbraio 2018 – Il mito di Orfeo ed Euridice tratta di penosa tracotanza umana ed esemplare sanzione divina: è incentrato su un amante inconsolabile, che s’illude di poter davvero togliere agli inferi, con le proprie forze, l’amata defunta. V’è una ragione precisa se Orfeo ed Euridice di Calzabigi/Gluck termina, per grazia d’Amore, nel recupero di lei e nel trionfo di lui: come creata a Vienna nel 1762, quest’azione teatrale così concisa e tutta intenta all’espressione degli affetti anziché all’intrecciarsi dei fatti, con netta prevalenza del contralto protagonista sugli altri interpreti, con determinante partecipazione corale e coreografica, nonché recante un secondo tassello riformistico dopo il Don Juan, quest’azione teatrale – si diceva – doveva essere un omaggio all’imperatore Francesco I di Lorena nelle feste del suo onomastico; e siccome egli era sposo innamorato, esemplare e appassionato della sua Maria Teresa d’Asburgo – sedici figli ne facevano fede – era giusto reinventare a sua immagine un Orfeo degno del lieto fine (l’Alceste di cinque anni dopo, poesia e musica degli stessi autori, è il lavoro complementare: morto all’improvviso l’imperatore, Maria Teresa fu ritratta nell’eroina, ché anch’ella, potendolo, presumendolo, avrebbe rinunciato alla propria vita pur di far salva quella dello sposo). Rifatta per Parigi nel 1774, l’azione teatrale divenne Orphée et Eurydice: una tragédie lyrique in lingua francese, con un protagonista haute-contre, una strumentazione ammodernata, l’aggiunta di airs e di un’intera scena, l’incremento dei numeri di balletto fino a eccedere essi un terzo dell’intera partitura: anche in questo caso, nel tripudio del pubblico, andò in scena il pianto del cantore come lezione di educativa costanza e tenerezza, tutto mirato – ciò che più conta – verso un finale-divertissement sempre più pomposo, smagliante, trionfalistico, commisurato alla smaliziata sete di grandeur del pubblico più snob d’Europa.

La puntualizzazione storica è opportuna per mettere a fuoco l’errore di base – tale è: non scelta interpretativa degna di séguito – in Orphée et Eurydice in scena al Teatro alla Scala per sette recite dal 24 febbraio al 17 marzo. L’allestimento scenico proviene dal Covent Garden di Londra, dov’è stato licenziato nel 2015, e ha regìa a quattro mani di Hofesh Shechter e John Fulljames. Essi intendono l’opera come un monotono, pessimistico e inesorabile pianto ciclico, non attuano un’analisi drammaturgica che dia materiale coerente atto a riferirne, mostrano sostanziale disinteresse al lavoro con gli attori e alla disinvoltura del coro. Shechter è anche l’autore delle coreografie, ora scalmanate ora impacciate, che impegnano la sua Company di danzatori; coreografie che per pochezza immaginativa imbarazzano tanto più alla Scala, dove il corpo di ballo residente ha nobiltà professionale nemmeno comparabile col volonteroso saggio della Company, e dove il pubblico – anche solo quello delle stagioni d’opera – conosce già l’erudito lavoro di un Ron Howell o di uno Heinz Spörli. I costumi (vestiti) sono di Conor Murphy, che firma anche le scene e dà contributo ideale a un allestimento sbagliato: lo sterminato golfo mistico della Scala rimane vuota piscina, mentre l’orchestra è trasferita sul palcoscenico, sopra una pedana che sale e scende a evocare mondo terreno e oltretomba; davanti e dietro la pedana rimane lo spazio per l’azione, mentre la sovrastante torre scenica del teatro, come una canna fumaria dal colossale tiraggio, porta via il suono dell’orchestra e il lavoro del concertatore. Difficile è così riferire della direzione di Michele Mariotti. Forse un provvidenziale conforto: chi scrive gli porta la più alta stima, e confida che anche quei metri di danza affondati in lutulenta catatonia, senza brio, senza zolfo, senza scherzo, senza accento, senza la cultura all’origine di Orphée et Eurydice, siano stati un tiro burlone dell’acustica.

Auspice il buon concertatore, l’orchestra lasciata dove deve stare è anche tradizionale e confortevole tramite tra la scena e la platea: lo dimostra l’improvvisa esitazione del coro della Scala, sempre superbo e invece qui incerto nell’intonazione medesima, come se a esso fosse stato improvvisamente tolto un filtro necessario. Col podio direttoriale non davanti a sé, ma alle proprie spalle, la stessa timidezza inficia la prova di Juan Diego Flórez. Il suo ritorno alla Scala come Orphée era un trionfo annunciato: questa recensione non lo ratificherà. Il Flórez del 2018, ormai avvezzo a Verdi, Gounod e Massenet, sempre meno ha infatti da spartire con lo stile implicito e con la scrittura stessa di un Gluck francese: Orphée ha poco da dare a lui, egli ha poco da dare a Orphée. Occorrerebbe una voce di haute-contre, vale a dire un tenore acutissimo che salga in registro misto fino a radere falsetto, volatilità e androginia, e che tanto carezzi il cantabile quanto voli liquido nelle roulades alla fine dell’atto I. Al contrario, Flórez trova qui una tessitura per lui ormai troppo elevata, e a maggior ragione se affrontata – come egli fa – cercando petto, volume e squillo, alimentando sgradevoli fibrosità, stancando precocemente il timbro e velando in esso la freschezza: il fuoco romantico di un tardo Ottocento italiano non è via utile verso l’olimpico e stilizzato idiomatismo dell’Ancien Régime. Maestra d’eleganza si conferma, al solito, Christiane Karg come Eurydice; invitata dal contesto ad accontentarsi di toni uniformemente algidi e queruli, perde però l’occasione di costruire la sottintesa scena di seduzione al principio dell’atto III, e conferire così la terza dimensione a un personaggio altrimenti esile. Svantaggioso, infine, è condividere la scena con l’esordiente Fatma Said come Amour: spigliata nel mettere a punto un canto di cipriosa vivacità Luigi XV, umilia tutti con uno sfumatissimo francese da madrelingua; ed è egiziana.

foto Brescia Amisano

 


 

 

 
 
 

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