L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Nelle impervie acque del destino

 di Antonino Trotta

Il Teatro Municipale di Piacenza segna un’altra tappa di successo nell’ambizioso progetto di celebrazione del repertorio italiano meno battuto: nel nuovo allestimento di La forza del destino trionfa la vulcanica Donna Leonora di Anna Pirozzi.

Piacenza, 20 Gennaio 2019 – La forza del destino non è un’opera maledetta, è un’opera maledettamente bella: la scrittura sontuosa raccoglie nel sofisticato sperimentalismo i frutti della nutrita esperienza musicale e drammaturgica, con un tratto appassionato che più dell’inerte materiale teatrale – impegnativo banco di prova anche per il registra più acuto – alimenta il travolgente torrente emotivo. Troppo affascinante per riporla in un cassetto ma troppo complessa per farne un caposaldo del repertorio di tradizione, navigare nelle impervie acque di La forza del destino significa innanzitutto investire su un prode vascello in grado di esaltare la magnifica fattura dell’opera senza infrangersi contro gli acuminati scogli che frastagliano la partitura. E il Teatro Municipale di Piacenza, oasi di riscoperta e valorizzazione di quei titoli tanto lussuosi quanto sfuggevoli, per il nuovo allestimento del capolavoro verdiano schiera in palcoscenico un parterre di artisti di prim’ordine che, nella cornice di una lettura registica lineare e composta, assicura il successo di una serata entusiasmante.

Magnifica a ogni livello prospettico, Anna Pirozzi sembra far tesoro di tutti i ruoli della collezione verdiana nella costruzione di un personaggio monumentale, poco bigotto, invece sanguigno e passionale: la fierezza di Abigaille e Lady Macbeth straripa nell’arditezza del canto di sbalzo mentre la purezza di Amelia e la caratura lunare di Leonora di Il trovatore scandiscono i tormenti romantici che abitano lo spirito di Donna Leonora. Lo strumento poderoso e timbrato, prorompente nelle abbaglianti puntature con cui rinvigorisce la parte, è piegato a regola d’arte dalle più sottili ricerche espressive, pienamente realizzate in una linea di canto vibrante e tersa, pregna di magnetiche accentazione e declinata con sfumature che sfiorano l’impercettibile (così come attestato nella celebre pagina corale del secondo atto o nell’etereo si bemolle filato di «Pace, pace, mio Dio», che la Pirozzi ha generosamente bissato per assecondare l’impetuosità delle richieste provenienti dalla platea).

Non è da meno Luciano Ganci che ben ha saputo sviluppare il materiale epico e cavalleresco di La forza del destino, portando in scena un Don Alvaro eroico nel fraseggio. Ardimentoso ed elegiaco, tecnicamente spavaldo – al netto di qualche piccola incertezza nelle vette della tessitura – e forte di un timbro luminoso e squillante, Ganci dimostra una fine musicalità e un’incisiva articolazione della parola, incontrando il favore del pubblico nella romanza del terzo atto, «O tu che in seno agli angeli».

Nonostante le severe contestazioni rivoltegli in chiusura del duetto del quarto atto, in parte imputabili a qualche passo falso in alcuni passaggi in acuto, Kiril Manolov giganteggia sulla scena per la portata vocale e la coinvolgente carica interpretativa con cui ha delineato la cieca sete di vendetta di Don Carlo di Vergas, unico motore dell’azione.

Un’agguerritissima Judit Kutasi, già apprezzata Amneris nella recente Aida genovese, sorprende per la spigliatezza teatrale che trasla tutta nella brillante coloratura della sua Preziosilla: svettante in acuto (potente il si naturale della sortita) e seducente nello smalto mezzosopranile pastoso e ambrato, la Kutasi sfoggia una voce ben disciplinata e precisa nelle agilità di questa scrittura, dalla fisionomia comparabile a Oscar di Un ballo in maschera, che stempera, con parentesi godibili e frizzanti, l’austerità dell’intreccio senza fare del ruolo un casuale contrappeso drammaturgico.

Accanto a lei, Marko Mimica si impone per la maestosità del mezzo che sposa alla perfezione la ieraticità del Padre Guardiano. Nobile e profetico negli accenti, ispirato nel canto e autorevole nella tenuta scenica del personaggio, il basso baritono croato colpisce per la voce statuaria, omogenea in tutti i registri, morbida nell’emissione, corposa negli abissi del pentagramma e tonitruante in cima. Eccellente il gioco di contrasti nel duetto con Leonora del secondo atto.

Marco Filippo Romano, Fra Melitone egregiamente sospeso tra il torvo e il grottesco, incarna con assoluta padronanza scenica il modello del sacerdote frustrato e abietto, facendo della predica del terzo atto un compendio di convincente arte scenica e musicale. Autoritario e distaccato, Mattia Denti scolpisce invece un marchese di Calatrava lucido e protervo per spessore vocale.

Ottima la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza istruito dal maestro Corrado Casati. Completano correttamente il cast Cinzia Chiarini (Curra), Juliusz Loranzi (Un alcade e un chirurgo) e Marcello Nardis (Maestro Trabuco).

Alla guida dei complessi dell’Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna, Francesco Ivan Ciampa regala una concertazione febbrile e affilata, equilibrata nelle sezioni e nella relazione con il palcoscenico. Con un lessico direttoriale ricco e un’attenzione al dettaglio strumentale che brilla nei passaggi più giocosi dell’opera (bella la leggerezza della ballata di Don Carlo e delle pagine corali con Preziosilla), Ciampa sa connotare i vari elementi del pensiero verdiano, diversificando con efficacia narrativa l’elemento gotico e mistico da quello militaresco o romantico.

Parafrasando le parole di Dag Hammarskjöld, noto segretario delle Nazioni Unite e premio Nobel per la pace nel 1961, «Non ci è data di scegliere la cornice del nostro destino, ma ciò che vi mettiamo dentro è nostro», Italo Nunziata ìdea una messinscene che fa da garbato sottotesto al dramma di Angel Perez de Saavadra. Lo spazio indeterminato, quasi siderale (viepiù acuito dall’uso dei fondali neri), concepito da Emanuele Sinisi, temporalmente referenziato nella seconda metà dell’Ottocento esclusivamente dai variopinti costumi di Simona Morresi, accoglie l’azione senza schiacciare la poetica dei personaggi, liberi di assecondare la drammaticità del dettato verdiano. Tutto è dominato da un’enorme cornice in cui interviene, di quadro in quadro, un dipinto di Hannu Palosuo che ha l’onere di circostanziare l’ambientazione, a eccezione dell’ultima scena, dove i protagonisti stessi diventano il soggetto dell’impietoso affresco tratteggiato dal destino. Funzionali i pochi elementi di attrezzeria – c’è solo un tavolo – e le luci di Fiammetta Baldisseri, ben pensate per differenziare, con mirate variazioni di intensità e calore, la dimensione religiosa da quella più introspettiva.

Il teatro completamente esaurito e l’entusiasta partecipazione del pubblico consegnano alle memoria dei felici ricordi le scintille di una serata elettrizzante. Vele spiegate e vento in poppa, Piacenza cavalca, ancora una volta, le onde del successo.


 

 

 
 
 

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