Rossini deturpato
La mela è di cera e Tell sbaglia la mira: l'opera rossiniana viene presentata nel circuito di Opera Lombardia sfregiata da tagli in ossequio a una concezione registica fragile e fuorviante firmata da Arnaud Bernard.
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BRESCIA, 11 ottobre 2019 - Se con Isabella Colbran Rossini condivise una sfavillante stagione artistica, con la seconda moglie Olympie Pélissier aveva in comune, decisamente, l'accortezza finanziaria. Sulla scarsa propensione allo sperpero di entrambi si raccontano vari episodi, fra cui l'abitudine di Olympe a disporre in tavola frutta di cera che non deperisse e che gli ospiti non potessero consumare. Anche la mela del Guglielmo Tell ammanito al pubblico di Opera Lombardia è un surrogato, una sommaria imitazione senza aroma né gusto, qualcosa di non commestibile, che illude e inganna chi non conosca la frutta autentica, che avvilisce e disgusta che ne abbia contezza.
La manipolazione del testo attuata dal regista Arnaud Bernard va ben oltre quel che si può discutere come legittima interpretazione: è un arbitrio che si basa sul pieno fraintendimento del testo e ne fa brandelli, imponendo in ossequio alla nuova drammaturgia tagli scriteriati, inaccettabili. Non si tratta di omettere i ballabili, o anche altri numeri chiusi o riprese di cabalette: prassi che magari non loderemo, ma che fanno parte della pratica teatrale e, se alterano le grandi strutture, non deturpano la musica nel profondo come avviene qui, in uno spietato e sconsiderato taglia e cuci di frasi, mezze frasi, battute. Ridotto a un malconcio torsolo di appena venticinque minuti, il terzo atto perde logica teatrale e musicale: non si seguono gli eventi, lo sviluppo è sconquassato a dispetto di ogni logica, con modulazioni brutali, frasi e melodie smembrate. Sfonda il ridicolo il coro che apre il quadro di Altdorf, in cui tagliando l'ingresso delle donne inneggianti a Matilde ci troviamo con le voci femminili a celebrare "Amore e fe'" unitamente ai soldati che cantano orgogliosi la ferocia di Gessler. Non parliamo, poi, come l'ingresso della stessa Matilde in difesa di Jemmy sia fatto a pezzi senza più un barlume di coerenza testuale, melodica, armonica. Insomma: si tratta Rossini come un idiota che avrebbe scritto musica talmente indegna di considerazione da poter essere tranquillamente amputata e riscritta (nelle note di regia Bernard dichiara che sarebbe un omaggio a presunti aspetti naïf e onirici dell'opera e viene il dubbio che di un'altra opera stia parlando o che non abbia capito proprio nulla di Guillaume Tell). Perché mettere in scena un capolavoro se lo si deve trattare come carta straccia? Liberissimo sarebbe Bernard di allestire un suo spettacolo sulla leggenda dell'eroe svizzero, e di usare anche temi rossiniani come musiche di scena. Di fronte all'opera così maltrattata, però, non si può parlare di libertà di un interprete: si parla di arbitrio offensivo verso la dignità del capolavoro.
Peraltro, lo spettacolo non brilla nemmeno per originalità. Il dramma come sogno di un bambino che lo anima fra i suoi giocattoli e salta sul letto non era stato forse sviluppato, con ben altri esiti, da Michieletto nella Gazza ladra? E lo stesso Michieletto non aveva già mostrato Jemmy appassionato lettore delle avventure di Tell e in rapporto conflittuale con il padre? Non era ancora Jemmy il fulcro della - non troppo riuscita ma comunque preferibile - messa in scena di Monaco di Baviera firmata da Antú Romero Nunes [leggi la recensione]? Perfino i soldati che nel finale primo irridono e malmenano Melcthal sembrano voler scimmiottare il pestaggio inscenato magistralmente da Graham Vick e Ron Howell a Pesaro, solo che qui sembrano più i ragazzini di Windsor che pizzicano, stuzzicano, pungono e spilluzzicano Falstaff. Insomma, nulla nella qualità del lavoro di Bernard sembra giustificare lo scempio a cui è sottoposta la partitura. La resa tecnica della regia non è impeccabile, con quegli elementi giocattolo che dovrebbero far parte dell'universo creato nei sogni di Jemmy e che i personaggi di questi stessi sogni ignorano bellamente (il tappeto blu della sua cameretta non sarebbe il lago? E allora perché nella rappresentazione evocata della leggenda tutti lo calpestano senza problemi?); con tutte quelle cadute stucchevoli e francamente scoccianti nel comico involontario (Jemmy guardone, Matilde e Rodolfo chiusi nell'armadio, Melcthal-Babbo Natale che si cala dal camino estraendo da un sacco un regalo per il ragazzo mentre gli svizzeri vestiti come pupazzi di un orologio a cucù montano una montagna innevata a mo' di presepe). Un'accozzaglia di déjà vu decisamente malassortita, al servizio di un'idea misera misera.
La drammaturgia zoppica fin dall'inizio, con una sinfonia che fa a pugni con la ricostruzione del primo episodio del Gian Burrasca televisivo (cui si confà decisamente di più Nino Rota). Non appare Bice Valori ginocchioni, non ci trasferiamo al Collegio Pierpaolo Pierpaoli, ma seguiamo le avventure casalinghe di Jemmy suggestionato dalla leggenda di Guillaume Tell. E alla fine, mentre l'epilogo musicalmente si consuma quasi tutto nella sua testa (coro in platea, solisti in quinta), quando nell'opera Gessler è già bell'e morto, papà Guglielmo scopre il malvagio maggiordomo (d'altra parte, chi potrebbe essere il colpevole se non un maggiordomo?) maltrattare il figlioletto e lo licenzia seduta stante con una liquidazione scagliata alla maniera di Alfredo Germont. La famigliola ci abbraccia, "tutto cangia, il ciel s'abbella", fine. E si butta a mare tutto il sublime dell'apoteosi conclusiva, come si ammosciava tristemente il giuramento del secondo atto e ognuno dei momenti che fanno del Tell il capolavoro che è, bibbia del melodramma ottocentesco. Per questa bizzarria ha cacciato Rossini all'inferno, sbriciolato senza rispetto, senza logica, senza ritegno. Davvero difficile trovare un'attenuante.
Leggendo le note di Carlo Goldstein si può intuire che abbia coscienza della grandezza della partitura, esprime concetti condivisibili, che tra l'altro si oppongono diametralmente alle idee del regista, anche se il discorso sui tagli non convince: è più che ovvio che Rossini accettasse la prassi dei tagli di partiture monumentali nella loro circolazione, e ci scherzava anche su ("Maestro, si darà il secondo atto del Guillaume Tell!" "Ma come? Tutto intero?"). Tuttavia questo non giustifica nel 2019 il proporre l'opera così barbaramente sforbiciata al suo interno (colmo del ridicolo è mantenere numeri chiusi che la tradizione aveva soppresso, come il trio delle voci femminili e la preghiera di Edwige, privata però del coro, quando altri numeri sono smembrati all'interno delle singole frasi). Si vuol dare un Tell abbreviato? Si abbia il coraggio di riprendere la versione in tre atti, con il nuovo finale inno alla libertà sulle note del galop, eseguito e inciso, per esempio, a Wildbad. Così, invece, si fa solo un pessimo servizio a Rossini, si serve come autentica una mela di cera. Peccato perché la sinfonia avrebbe anche un bell'impeto, naturalmente misurato con le possibilità di un'orchestra che s'impegna, ma spesso inciampa, come capita più volte al corno. Il coro fa bene, anche se il trovarsi spesso fuori scena non si può dire che lo aiuti.
Difficile, a questo punto, soffermarsi sui cantanti, annichiliti dalla pochezza dell'intera operazione a dispetto di indubbie qualità individuali. Per di più, sono costretti a imparare tagli e una versione italiana, quella storica di Calisto Bassi, uscita dal repertorio, francamente brutta, spesso fuorviante, ormai chiaramente percepita nel suo rapporto alterato con un'articolazione musicale concepita sui versi francesi. Gezim Myshketa è un Tell vigoroso ma un po' opaco; Marigona Qerkezi ha una bella voce argentea, canta bene, ma Matilde, un po' Mary Poppins un po' Romy Schneider/Sissi, resta in ombra; Giulio Pelligra se la cava come Arnoldo, e non è poco, pur con qualche tensione e qualche dinamica un po' brusca. Barbara Massaro è iperesposta come attrice, tanto che quasi ci si dimentica che Jemmy è anche un personaggio cantante ed è un peccato, perché tutti i suoi interventi sono resi davvero bene. Davide Giangregorio fa quel che può con un Gualtiero reso praticamente trasparente; Irene Savignano è Edwige, Nico Franchini un Pescatore un po' timido, Pietro Toscano Melcthal, Luca Vianello Leutoldo, Rocco Cavalluzzi Gessler, Giacomo Leone un Rodolfo poco incisivo.
Il pubblico applaude. Dopo cinquantasei anni, però, Guillaume Tell meritava di meglio per il ruo ritorno a Brescia, anche a costo di aspettare ancora un po'.
foto Alessia Santambrogio