Ecco il monologo
di Roberta Pedrotti
Nel suo concerto per il Rossini Opera Festival, Nicola Alaimo offre un saggio delle sue qualità d'interprete muovendosi con disinvoltura d'attore fra Mozart e Cilea, Belcanto e Verismo. Notevolissimo il contributo del venticinquenne Alessandro Bonato sul podio dell'Orchestra Filarmonica Gioachino Rossini.
PESARO 10 agosto 2020 - Come Olga Peretyatko aveva fatto ascoltare un'aria da quel Guillaume Tell nel quale avrebbe dovuto debuttare a Vienna in primavera, pure Nicola Alaimo riallaccia nel suo recital pesarese in Piazza del Popolo i fili interrotti di debutti mancati, nel suo caso nei panni di Mustafà, per curiosa coincidenza sempre previsto alla Wiener Staatsoper. Mesi di lavoro in vista di una produzione possono svanire (o quasi) nel nulla per cause di forza maggiore: anche questa è la vita dell'artista, non dimentichiamolo.
La precarietà, la volatilità dell'arte, però, è anche l'altra faccia della medaglia della sua meravigliosa molteplicità, quella che in un'ora e mezza, in un'unica voce, permette di lambire un secolo e mezzo di musica, di esprimere la vitalità più positiva e il nichilismo più bieco, l'amore rassegnato senza speranza, la seduzione erotica e la persuasione istrionica, il rimprovero del padre, la tirannia del tutore, i tormenti del rivoluzionario. Dopo Mustafà, Alaimo canta Figaro (di Mozart come di Rossini) e Don Bartolo, Don Giovanni e Dulcamara, Germont e Jago, Michonnet e Gérard. Canta? Sarebbe riduttivo, forse fuorviante, come del resto appiattirebbe la sua performance nel cliché la facile definizione di "artista versatile". Lo è, senz'altro, ma perché è fondamentalmente un attore, un attore in musica. Lo si avverte per come scandisce il sillabato di Don Bartolo, per come fa pesare a denti stretti ogni parola rivolta ad Alfredo in "Di Provenza", perché sa essere davvero irresistibile nel propinare l'elisir ai "rustici", perché il lavoro sulla parola nel Credo è davvero impressionante (ascoltate il crescendo spregevole al "verme dell'avel" e poi quel tono anodino, vuoto, da brividi in "la morte è il nulla"). Perché, soprattutto, il monologo di Michonnet diventa un piccolo dramma compiuto, un inno al teatro e al dolore umano che si inchina all'arte e in essa si trasfigura.
Naturalmente, questo è possibile perché il lavoro sullo stile, il carattere, il linguaggio di ogni pagina è condiviso con Alessandro Bonato, vale a dire il secondo e il più giovane asso del tris di bacchette calato per questa serie di concerti 2020 dal Rof. Il venticinquenne veronese aveva già acceso l'attenzione con il suo debutto pesarese, più defilato nell'ambito del cartellone 2019: ora sfodera con nonchalance, in piena evidenza, la tecnica e la sensibilità per dominare il crescendo rossiniano come non sempre sanno fare direttori con il doppio dei suoi anni, la tecnica e la sensibilità per giostrare i rapporti dinamici fra i temi, il loro ricorrere, svilupparsi, rimbalzare di sezione in sezione, di strumento in strumento. Le sinfonie dell'Italiana in Algeri e del Barbiere, come del resto di Così fan tutte, hanno la freschezza di un fraseggio tanto esatto quanto fluido, libero, esente da ogni leziosaggine. Quando poi attacca la sinfonia di Luisa Miller, però si sobbalza: ecco un bel verdi teso, scattante, ben calibrato, drammatico e intelligente. E la maestria con cui accompagna l'insidiosissima "Di Provenza" senza scivolare nella cantilena meccanica cede i passo solo alla bellezza del dialogo fra voce e orchestra nel Credo di Jago: anche qui già alle prime battute lascia il segno, ma ancor più colpirà per la capacità di condurre un discorso articolato a meraviglia, respirando plasticamente con la parola cantata. Va da sé che i monologhi di Gérard e Michonnet non siano da meno, e per la capacità di distillare lirico intimismo e per "violenta passione" in lotta con l'utopia idealista. Ma colpisce anche come tenga a bada l'ouverture dalla Gina di Cilea, in modo che un certo qual slancio pimpante non prenda troppo il sopravvento e, d'altro canto, le fanfare finali, in linea con il clima militare del soggetto, non si gonfino in effetti ruffiani.
Alla fine, il bis chiesto a gran voce dal pubblico e presentato da Alaimo con la consueta empatia è "La calunnia" dal Barbiere di Siviglia: dopo largo al factotum e A un dottor della mia sorte si completa il trittico delle voci gravi principali del capolavoro rossiniano. L'aria è ancora una volta resa con gusto sapido della parola mai sopra le righe, mentre il crescendo serpeggia ancora una volta incalzante e insinuante nella bacchetta di Alessandro Bonato.
foto Amati Bacciardi