L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Violetta nel Sessantotto

di Francesco Lora

Al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, La traviata con regìa di Davide Livermore è capolavoro di recitazione, con una compagnia di canto imperniata sulla sbalorditiva Nadine Sierra, sull’impegnatissimo Francesco Meli e sull’inossidabile Leo Nucci. Zubin Mehta sul podio, per una strada interpretativa da vecchio leone.  

FIRENZE, 24 settembre 2021 – Molti latrati melomaniaci sui social media, già alla vigilia della prima recita: la verità, però, è che La traviata di Giuseppe Verdi, in scena al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino per sei recite dal 17 settembre al 5 ottobre, disdice solamente a chi non va ad assistervi. L’allestimento è nuovo e spaventa (qualcuno) per taluni tratti non oleografici nella regìa di Davide Livermore, nelle scene di Giò Forma e nei costumi di Mariana Fracasso. La trasposizione spazio-temporale alla Parigi del Sessantotto, quella di una libera vita socio-sessuale pretesa e attuata, serve soprattutto a procurare immagini di contemporaneità, osservabile da un minimo di salutare distanza critica. Il punto è un altro e sta non tanto in ciò che si vede nell’immediato quanto in ciò che resta da meditare. Quella di Livermore è una Violetta che si stacca da Alfredo per la chiara, inesorabile consapevolezza di appartenere a due mondi sociali alternativi l’uno all’altro. Lei muore dentro al proprio, dopo aver per qualche tempo sognato di essere ammessa nell’altro e dopo aver immolato il presente all’illusione di un futuro diverso, credulamente d’amore; lui incrocia il mondo di lei per momentaneo divertimento studentesco, ma ha altrove la propria base e il proprio destino: calato il sipario, ci se lo immagina arrivato ai suoi settant’anni da figlio della borghesia per bene, sposato con una sua pari, seduto oggi in platea, speranzoso che nessuno ricordi più quella sbandata giovanile per una poveraccia che la dava via facilmente e che in quella veste anziché in un’altra, però, gli aveva fatto perdere la testa. Una lettura dura, realistica: nel procedere dello spettacolo toglie la forza di applaudire e invita a ritirarsi nei pensieri. A rendere immenso l’esito teatrale è il migliore dei bilanciamenti possibili tra lo stilismo e l’olio di gomito: i soliti video livermoriani preparati da D-Wok restano a decorare il fondo, mentre nel cuore della scena si ammira la minuziosità del lavoro con gli attori.

Al suo debutto nella parte protagonistica, Nadine Sierra è non meno che sbalorditiva. Regge l’impalcato belcantistico senza perdere un trillo, un’acciaccatura, un segno di fraseggio, un’oncia del vivido timbro, una tensione di frase su fiati generosi, una ragione di mostrarsi persino cantante erudita: sul finire del cantabile nell’aria dell’atto I, sfodera, con prodezza di articolazione e modulazione, una magnifica cadenza che non è quella dell’autore ma ha un’evidente autenticità ottocentesca. Altrettanto impressionante è l’attrice: prosodia italiana inappuntabile, porgere pregnante e commovente, ammaliante bellezza di figura, scioltissima gestualità cinematografica che convive senza conflitto, come fosse la cosa più naturale del mondo, con le pur sempre rigide strutture drammatiche e musicali di un’opera del 1853; anche quando la Sierra va a prendersi gli applausi, salutando espansivissima il pubblico, Violetta sembra essere dentro di lei e perpetuarsi. In tale compagnia, Francesco Meli rilascia il suo più cesellato e disinvolto Alfredo di sempre, mentre Leo Nucci, come Germont padre, persevera a umiliare i suoi colleghi più giovani: a settantanove anni compiuti, il fiato s’è accorciato e sfumare costa fatica, ma l’ampiezza di volume e la lucidità di smalto si conservano da fuoriclasse. Solo per agevolare lui Zubin Mehta affretta il passo, qui e là, di una Traviata altrimenti dilatatissima nei tempi, imbibita di morte dall’inizio alla fine, giocata di luci su severe paste plumbee, paga di un’orchestra in alta uniforme: non è una strada interpretativa tratta con oggettività dal testo scritto, ma il carismatico e benvenuto punto di vista di un vecchio leone del podio. Cui si contestano soltanto gli orrendi tagli di tradizione, che sfigurano la logica formale di una partitura calcolata: via la seconda strofa dalla romanza dell’atto I, che tanto più odorerebbe di parigino grazie a tale struttura; via la ripresa dalle cabalette dei due Germont e via trenta battute dal duetto nell’atto III. Peccato.


 

 

 
 
 

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