L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Status animarum post mortem

di Roberta Pedrotti

Il Teatro Amintore Galli di Rimini prosegue il suo ritorno alla piena attività dopo il restauro e porta in scena Il viaggio di G. Mastorna, opera fantastica in un prologo e tredici quadri di Matteo D'Amico, protagonisti il baritono Luca Grassi e l'attore Valter Malosti, anche regista.

RIMINI, 22 ottobre 2021 - “Non devi fare un film sulla morte” fu il verdetto del veggente Rol quando Federico Fellini gli sottopose l'idea per una nuova sceneggiatura, Il viaggio di G. Mastorna. Si sa, il regista di Rimini era sensibile, quasi ossessionato dal sovrannaturale, dall'irrazionale e dall'onirico, dalla psicologia junghiana: subito accantonò il progetto di una sua visione dello “status animarum post mortem”.

Fatalità su fatalità, il protagonista avrebbe dovuto essere un violoncellista, per lo strano paradosso che ha visto un cineasta nella vita disinteressato, quasi impermeabile alla musica (classica e operistica soprattutto), nell'arte poi realizzare film musicalissimi, stringere un rapporto simbiotico con il compositore Nino Rota, scegliere musicisti e intere orchestre come figure chiave. Alla fine, addirittura, tutto sembrava concorrere a far sì che la sceneggiatura non nata e già fantasma del Viaggio di G. Mastorna venisse alla luce proprio in forma di teatro musicale, nella sua Rimini. Non nel centenario dalla nascita, ché Fellini era nato nel 1920 e un secolo dopo le celebrazioni sono andate tutte a monte. Il progetto dell'opera fantastica in un prologo e tredici quadri, da un'idea di Cinzia Salvioli e Valerio Tura, musica e libretto di Matteo d'Amico si realizza, così, in concomitanza più con le iniziative per i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri, cosa non peregrina: sempre di “status animarum post mortem” si tratta, Ravenna è a due passi e coproduce lo spettacolo, addirittura c'è un coro che intona versi della Commedia (e, trattandosi di idea precedente, non è colpa dell'autore se pandemia e settecentesimo hanno inflazionato all'inverosimile il “riveder le stelle”). E se in questi giorni arriviamo a festeggiare, fra i risultati della campagna vaccinale, il ritorno alla piena capienza dei teatri, da celebrare c'è anche la recente riapertura del Teatro Amintore Galli, reinaugurato, dopo le devastazioni della guerra, nel 2018 e finalmente riavviato anche alla produzione.

Matteo D'Amico trae dalla sceneggiatura un libretto che funziona, anche grazie alla presenza di una voce narrante (Fellini stesso) interpretata da Valter Malosti, anche regista, senza mai un cedimento di tensione e attenzione. La musica dello stesso D'Amico non cade nel facile tranello di una maniera rotiana, anche se qualcosa in filigrana non può che emergere, e si concentra su un nitido, espressivo recitar cantando, su un tessuto strumentale (Jacopo Rivani dirige l'orchestra Arcangelo Corelli) che nella sua dimensione cameristica riesce a disegnare un avvincente arco drammaturgico sia per i colori sia per la caratterizzazione dei vari quadri, il procedere fra l'onirico e il paradossale fino all'introspezione dolorosa, a tratti insostenibile della riscoperta di sé, dei propri rapporti, del ritorno al rapporto con i genitori, il confronto con i quali giunge all'akmé prima della risoluzione quieta e luminosa dell'epilogo.

Se Malosti è una sorta di Virgilio esterno per tutti noi, il Mastorna di Luca Grassi (interpretazione sfaccettata, introversa e tormentata, declamato chiarissimo, voce ben timbrata) è guidato sulla scena da una serie di apparizioni che ora sono guide, ora ricordi: anime dell'aldilà, Virgilio, Beatrice, anche un po' Lucignolo in quello strano paese dei balocchi per i trapassati. Sono Yulia Tkachenko (hostess, la balia Jole, uno degli astanti), Vittoria Magnarello (vigilessa, infermiera, assistente del truccatore, parente), Eleonora Lué (entraîneuse, funzionario, amante di un tempo, Adelaide, la madre), Aslan Halil Ufuk (becchino, parente, truccatore), Ken Watanabe (portiere, colonnello, giovinotto ubriaco, prof. De Cercis, il padre), Marco Manchisi (Armandino, lo spretato), Matteo Baiardi (presentatore), Barbara Martinini (danzatrice). Magnarello, Lué, Ufuk e Watanabe incarnano anche il coro madrigalistico fuori scena, che punteggia il viaggio con versi danteschi. Tutti, attori e cantanti, italiani e stranieri, giovanissimi ed esperti si distinguono per la dizione ben intellegibile grazie anche alla scrittura di D'Amico.

Alla prova generale si discute ancora di limature per un progetto che viene da lontano e ha potuto prender forma solo in pochi giorni, ma l'impressione condivisa è che Il viaggio di G. Mastorna, pur così legato al luogo di nascita, possa proseguire felicemente anche su altri palcoscenici.

Intanto il viaggio si può proseguire solo svoltando l'angolo. Proprio dietro al Teatro Galli, piazza Malatesta ha un che di dechirichiano, con la sua prospettiva geometrica di trapezio un po' sghembo con al centro il cerchio di una felliniana pista di un circo fantasma. All'altro capo, Castel Sismondo, nella cui architettura è stato integrato, come un'unica istallazione in tre piani e quindici stazioni, il Fellini Museum. Pochi cimeli, non è un'esposizione e, anzi, la visita potrebbe essere abbinata al Museo della Città “Luigi Tonini”, che conserva molti disegni autografi, locandine, nonché altre collezioni da quella archeologica all'arte contemporanea. Il Fellini Museum è un'altra cosa, dove si possono ammirare costumi originali e documenti, ma si punta molto sul medium d'elezione di un cineasta: proiezioni, audiovisivi, pannelli come schermi fra i quali aggirarsi, macchine sceniche. Ci si può soffermare sulle molte interviste video proposte in punti strategici – come l'azzeccata sala dei confessionali – o su documenti d'epoca ancora attuali, come lo scorrere di titoli di giornale sulle polemiche relative alla Dolce vita (“può l'arte avere come oggetto l'immoralità?” ci si chiedeva) o le lettere ricevute dal regista (un padre che propone la bella figliola come possibile volto nuovo da scoprire...). Si può passeggiare, perdendosi in un labirinto di frammenti di cinema e di vita (che forse sono la stessa cosa: ad ogni modo il diario onirico disegnato e i riferimenti a Rol lasciano il segno), di sale e cunicoli, pietre antiche, avanzi di affreschi. Molto, molto felliniano, non solo in senso stretto: dopo il Fellini Museum, altre sale del castello ci parlano dello sceneggiatore di Amarcord, Tonino Guerra. Un'altra parte di Romagna che si è fatta cinema, e poesia, e disegno, ma anche artigianato. Il passato riemerge nella viva voce di un'intervista e nella lettura dei propri testi da parte dello stesso Guerra, ma anche in una raccolta di oggetti che raccontano la fisicità del rapporto con la cultura materiale e popolare in relazione con l'arte contemporanea. Ceramiche e altri manufatti disegnati suggeriti, realizzati in collaborazione con artigiani mescolano ricordi affettuosi, suggestioni letterarie, tradizione e avanguardia, realismo e astrazione in un gioco continuo che fa toccare con mano la personalità del poeta romagnolo. Poi, per strada, basta guardarsi bene intorno e qualche figuretta, qualche personaggio può ricordarci che quel mondo è ancora lì, basta saperlo vedere.


 

 

 
 
 

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