La parabola di un secolo
di Alberto Ponti
La coppia di interpreti Mariangela Vacatello/Robert Trevino affronta senza timidezza il pieno romanticismo del Concerto in la minore di Schumann, affiancato in una lunga ma appassionante serata ai frutti estremi di Elgar e del primo Webern, colti già nei primi anni del Novecento alla vigilia delle imminenti rivoluzioni musicali del secolo breve
TORINO, 18 marzo 2022 - Il secondo dei tre appuntamenti consecutivi con il direttore ospite principale Robert Trevino sul podio dell'Orchestra Sinfonica Nazionale si sviluppa lungo il percorso di un programma sontuoso per varietà e ampiezza: due ore di musica impaginate secondo il classico schema pezzo sinfonico-concerto-sinfonia.
In luogo dell'ouverture che ti aspetteresti, utile per scaldare musicisti e pubblico, il primo pezzo è già all'insegna di un impegno rilevante. L'idillio Im Sommerwind (1904) di Anton Webern (1883-1945) potrebbe chiamarsi poema sinfonico a tutti gli effetti. Ne possiede infatti impianto e organico (una grande orchestra con legni a tre e ben sei corni) ma il giovane autore, ben prima di addentrarsi nei territori inesplorati dell'atonalità, ebbe forse un sussulto di modestia nel battezzare un lavoro composto in un periodo in cui Ein Heldenleben e Sinfonia domestica di Richard Strauss erano ancora freschi di inchiostro. Certo, in esso, al di là di un senso di asciuttezza del suono, di purezza di linee e contorni, si intravede poco del compositore aforistico che verrà, ma il Webern tonale, nel l'eloquio sincero, impetuoso e un tantino acerbo di un ventenne di talento, rimane adorabile e lascia intendere che, se i percorsi seguiti fossero stati differenti, il suo nome non sarebbe scivolato nell'anonimato dei tanti professionisti dotati di un mestiere solido e nulla più. Trevino è accorto nell'evitare di leggere la partitura alla luce di chi, venuto oltre un secolo dopo, vuole a tutti i costi calcare la mano nello svelare premonizioni dello stile futuro. Nel generoso abbandonarsi al fiorire del lussureggiante tardoromanticismo, nell'assecondare la fioritura del morbido tema principale tra i gruppi di strumenti, pare piuttosto indugiare sul gozzaniano amore per 'le rose che non colsi, le cose che potevano essere e non sono state', ricompensato dal caldo applauso del pubblico, cui non sfugge il sottile soffio del vento estivo che la bacchetta del maestro texano riesce a far circolare tra le poltroncine della sala.
Il celebre concerto per pianoforte in la minore op. 54, composto da Robert Schumann (1810-1856) tra il 1841 e il 1845, vede la partecipazione in veste di solista di Mariangela Vacatello, chiamata in extremis a sostituire la prevista e indisposta Hélène Grimaud. La pianista campana non manca di originalità e di equilibrio in una delle pagine più ardue, da un punto di vista squisitamente poetico, dell'intera letteratura concertistica. Quasi priva di passaggi di virtuosismo trascendentale, l'opera rischia infatti di cadere negli eccessi di esecuzioni di eccessiva brillantezza di un pianismo alla Weber o alla Mendelssohn (modelli di cui la scrittura schumanniana conserva comunque reminescenze), rischiando di snaturarne l'intima essenza, oppure in letture di dilatato struggimento, adatto a molte miniature dello stesso autore, ma fuori luogo in un affresco di vaste proporzioni dove alla sospensione del tempo e all'evocazione in poche battute di un fugace e inafferrabile sentimento, si sostituisce l'agone dialettico tra solo e tutti. Il pianismo di Mariangela Vacatello è ricco di sfumature, scava a fondo nelle sottigliezze di un lirismo ora spianato ora venato di inquietudine con classe e sicura personalità ma, quando è necessario, affonda la zampata leonina e incanta l’uditorio con autentici giochi di prestigio alla tastiera. Esemplare è la cadenza del primo movimento, dove la furia contrappuntistica delle movenze iniziali, delibata nota per nota nonostante la velocità straordinaria, trascolora in una cascata di vaporosi trilli che, lungi dal perdersi in una sehnsucht di maniera, acquistano sotto le sue dita crescente energia fino all’attacco della coda liberatoria. La chiarezza di fraseggio e di idea interpretativa va rare volte a scapito dei contrasti dinamici, poco accentuati soprattutto nel finale, se confrontati con gli esiti di altri solisti di rango. La forma voluta da Schumann per il suo concerto più ambizioso risulta tuttavia scolpita dalla Vacatello con energia e finezza. Il pregio di coniugare forza e controllo tecnico, tanto pregevole in quanto spinto fino ai limiti delle possibilità fisiche di una mano non enorme, con la drammaticità narrativa del racconto è evidente nello Studio trascendentale n. 10 di Franz Liszt concesso a una platea entusiasta e impressionata.
Trevino è spalla ideale in una partitura che, accanto al protagonismo del pianoforte, coltiva momenti di genuino e travolgente sinfonismo, in particolar modo durante lo sviluppo degli articolati movimenti iniziali e finali, tanto da concedersi il complesso fugato a metà dell’Allegro vivace.
Se Edward Elgar (1857-1934) rimase per tutta la vita un autore eclettico legato al linguaggio tradizionale non si può dire che lavori del calibro della Sinfonia n. 1 in la bemolle maggiore op. 55 (1908), addirittura posteriore a Im Sommerwind, non si pongano sullo spartiacque tra vecchio e nuovo, esprimendo le contraddizioni di un’epoca che, mentre celebrava il trionfo di un’espressione orchestrale che non era mai stata così lussureggiante e complessa, ne avvertiva in misura più o meno inconscia o profetica (come in Mahler) la prossima disgregazione. In realtà non vi è nulla di radicale in Elgar, esponente in musica del perfetto gentleman britannico ma di fronte a pagine come la sua prima sinfonia viene da domandarsi se non segnino davvero il punto culminante di un magistero strumentale e stilistico destinato presto a cedere il passo alle rivoluzioni dietro l’angolo.
L’esecuzione di Trevino è superba, con una cura del dettaglio impeccabile in un pezzo dalle mille sfaccettature, dal grandioso esordio in tempo Andante (con l’indicazione ‘Nobilmente e semplice’) al perfetto gioco ad incastro dei movimenti veloci, staccati con tempi sostenuti ma in cui nulla è affidato al puro effetto e all’approssimazione. L’Orchestra Sinfonica Nazionale appare in forma smagliante in una sinfonia presentata l’ultima volta all’auditorium Rai nell’ormai lontano 2006 sotto la bacchetta del grande specialista Jeffrey Tate. Il commovente Adagio e il vasto, elettrizzante finale in cui ciclicamente ritorna il tema di apertura sono l’apogeo di un’interpretazione di alta densità emotiva, premiata dalla spontanea ovazione dell’intera sala.