L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Nella mente di Don José

di Roberta Pedrotti

Esito contrastato per una riuscita nuova produzione di Carmen con la regia di Silvia Paoli. Musicalmente si impongono le voci femminili (Martina Belli, Laura Giordano, Eleonora Bellocci e Chiara Tirotta), ma l'impegno d'interprete di Arturo Chacon Cruz, in scena ininterrottamente, non passa inosservato.

PARMA, 12 gennaio 2022 - Parma è una città meravigliosa e il suo teatro lo è ancor di più, anche con le sue tradizioni magari un po' borderline, sospese fra genuina e sanguigna passione, folklore locale e qualche ostentazione che rischia di trasformarsi in macchietta. Ci sta, insomma, che alla stonatura palese del baritono tutto il teatro rabbrividisca (e mugugni) all'unisono, ci può stare l'esclamazione colorita in dialetto, un po' meno il dibattere ad alta voce durante lo spettacolo, come se chi è in scena non avesse diritto a lavorare in pace (ed essere eventualmente applauditi o contestati a tempo debito), se il resto del pubblico non avesse diritto a guardare e ascoltare senza interferenze. Quando poi, un'esuberante voce femminile – la stessa già riconosciuta per le escandescenze alla prima di Un ballo in maschera – sentenzia che “Carmen non si fa così”, suscita ben più di un sorriso: l'oracolo parlò? O, per dirla con i versi dell'opera verdiana, “l'oracolo mentiva”?

Sentiamo rimpiangere colori, mantiglie, ventagli e solleoni – e sì che metà dell'opera si svolgerebbe al chiuso o comunque di notte – ma siamo certi che Carmen sia il capolavoro che è grazie alle balze da flamenco e ai pettinini nei capelli? Che Madama Butterfly non valga per qualcosa di più di un kimono? Che a Verdi della Traviata importasse d'altro che delle crinoline? La Carmen che ci propone il Teatro Regio per l'apertura di stagione alla vigilia del patrono Sant'Ilario e dopo l'anteprima all'insegna dell'operetta il mese scorso è una bellissima Carmen, intensa, chiara, ben congegnata. Silvia Paoli parte da un assunto semplice ed evidente, anche perché è lo stesso della novella di Merimée: Don José è la voce narrante, vediamo i fatti attraverso il suo punto di vista e i suoi ricordi mentre, omicida, sconta la pena e forse attende l'esecuzione. La cella e il cortile della prigione sono lo spazio (ideato da Andrea Belli) in cui si consuma la sua ossessione e si dileguano come un sogno solo nel terzo atto, visione degli spazi aperti e di quella liberté enivrante che il dragone si fa promettere dall'amante e che distorce come capriccioso delirio di possesso e onnipotenza. Non c'è redenzione, né troppa compassione, per quest'uomo debole visitato solo da una rassegnata e avvilita Micaëla. Un uomo che di Carmen serba il ricordo di un oggetto erotico, memoria sensuale che si accende al momento del rancio trasformando il carcere nello spettro della taverna di Lillas Pastia, ma che poi si vorrebbe possedere come sposa perfetta, anche se lei si affianca a un altro uomo e quindi, o sua o di nessuno, dovrà morire. Il piano del reale e quello dell'allucinazione e del ricordo sempre distorto dalla prospettiva dell'assassino sono ben gestiti grazie anche alle luci di Marcello Lumaca e alle coreografie di Carlo Massari. I costumi di Valeria Donata Bettella inseriscono perfette pennellate di colore (il blu dei berretti, il rosso delle rose) in una scala di grigi che abbraccia anche l'ottanio del soprabito di Micaëla in un'atmosfera opprimente e fosca. Come opprimente è fosca può essere, al netto della patina spagnoleggiante, una vicenda dominata fin dalle prime battute dal tema del fato e della morte. Nell'ultimo atto, soprattutto, l'accostamento fra il rutilante “A dos quartos”, il rito nuziale, il rito funebre, quelle rose rosse d'amore che replicano “la fleur” come omaggi su una tomba simbolica crea un effetto potente, in cui le proiezioni sembrano quasi superflue (altrove, i volti femminili deformati e sfigurati nei video di Francesco Corsi hanno ben superiore incisività).

La concertazione di Jordi Bernacer segue la versione Giraud con i recitativi cantati e ridotti all'osso; procede talora con un passo un po' stentato, dilatando e sospendendo più che sbalzando l'accento. Un pizzico di verve in più non avrebbe guastato a tratteggiare il delirio del condannato, ma, considerate anche le difficoltà delle ultime settimane (la pandemia rende gli organici orchestrali sempre più instabili si dalle prove) e la sintonia con l'atmosfera visiva, le scelte di Bernacer risultano sempre coerenti.

Seppur costrette attraverso la visione distorta di Don José, le donne si prendono una notevole rivincita nel cast. Martina Belli non ha la voce carnosa e lussureggiante che ci si aspetterebbe da un certo tipo di Carmen tradizionale, ha una voce che rispecchia il suo fisico longilineo, che piega con intelligenza musicale al sussurro, che sa rendere spettro di un'ossessione, più che donna in carne e ossa, ma pure capace di emergere prepotente in alcune frasi in cui sembra che all'assassino si ribelli il suo stesso ricordo. Laura Giordano canta con sincera morbidezza, senza smancerie, una Micaëla forte e femminile, né si dimentica il suo lento portare le mani al viso nel vedere l'ex fidanzato che riaffonda nel delirio. Molto brave anche Eleonora Bellocci, Frasquita sicura e timbrata, e Chiara Tirotta, che sceglie di tenere sul viso la mascherina da cui i solisti sarebbero esentati. A tal proposito, non si può non notare come il volto coperto di coro e danzatori enfatizzi ancor più l'atmosfera claustrofobica e alienata dello spettacolo.

Ad Arturo Chacon Cruz va reso il merito di aver retto la scena ininterrottamente dalla prima all'ultima nota, talora del tutto solo quando (per esempio nel finale secondo) solitamente si sarebbe trovato circondato da decine di colleghi di palcoscenico. La voce talora risulta emessa senza troppa grazia, ma nel complesso il suo Don José merita una piena promozione, il suo impegno d'interprete un encomio incondizionato. Viceversa, non funziona Marco Caria come Escamillo, e non tanto per le comprensibili difficoltà che incontrano i baritoni nel registro grave (il problema inverso affligge i bassi che vestano i panni del torero), quanto per il canto ingolato, non sempre intonato, sovente problematico anche nelle tessiture più congeniali. Manca, poi, del tutto dello charme spavaldo che dovrebbe essere conditio sine qua non del personaggio. Il veterano locale Armando Gabba (Dancaïre), Saverio Fiore (Remendado), Gianni Giuga (buon Morales) e Massimiliano Catellani (Zuniga) completano il cast. Con il collaudatissimo coro preparato da Martino Faggiani, debutta con questa produzione anche il coro delle voci bianche del Regio preparato da Massimo Fiocchi Malaspina: ben impegnato anche sul versante scenico (a corroborare il carattere infantile di Don José), merita un caloroso in bocca al lupo per il futuro.

Alla fine, gli applausi più caldi vanno a Laura Giordano, ma tutto il cast viene apprezzato ad eccezione di Marco Caria. L'uscita al proscenio della squadra registica suscita il riaccendersi di qualche battibecco, ai “bu” rispondono dei “bravi” e si torna a discutere. Per fortuna. Il teatro non è sapere “come si fa la Carmen”, ma è mettersi in gioco, pensare, confrontarsi, anche con pareri opposti, purché non preconcetti. Rendere onore a Bizet non è ripetere eternamente l'eguale (per citare un grande ammiratore della Carmen), ma interrogarsi sulla sua opera.


 

 

 
 
 

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