L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Clan di canto

di Francesco Lora

L’opera di Vincenzo Bellini, al Teatro alla Scala, non brilla nella lettura teatrale di Adrian Noble né in quella musicale di Speranza Scappucci. Alterna la compagnia di canto, che rappresenta diversi “mercati” dagli eccelsi Lisette Oropesa e Michele Pertusi, all’ammirevole Jinxu Xiahou, alla discutibile Marianne Crebassa.

MILANO, 30 gennaio 2022 – Trovarsi nell’esclusivo club dei massimi teatri al mondo, i quali sono anche marchi commerciali, obbliga a regole di mercato non sempre vantaggiose: se un’istituzione incorona un artista e ne incrementa il valore, inteso alla lettera anche come prezzo, anche le altre devono acquistarlo per non sembrare fuori dal giro. Il risultato è come quando l’amico fighetto e sconsigliabile ti costringe a prendere il cappuccino dove costa il doppio e lo fanno meno buono che nel baretto sotto casa: l’Italia ha tradizione, materia prima e discernimento tali da poter fare a meno della moda, globalmente banale, dei vari Starbucks. L’allestimento dei Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, al Teatro alla Scala per cinque recite dal 18 gennaio al 2 febbraio scorsi, esemplifica come il sistema di Londra, Madrid, Monaco di Baviera, New York, Parigi e Salisburgo possa essere per Milano più una conformistica perdita di idiomatismo che un fruttuoso guadagno d’internazionalità; né sarà fuori luogo osservare come quasi vent’anni di sovrintendenze e direzioni artistiche non italiane, sotto la Madonnina, possano sì attestare il loro amore verso la Scala e il repertorio nostrano, ma non in automatico la conoscenza del contesto e il più accorto modo di fare.

Lo spettacolo con regìa di Adrian Noble, scene di Tobias Hoheisel, costumi di Petra Reinhardt, luci di Jean Kalman e coreografia di Joanne Pearce è un pallido cantiere di errori. È sbagliato far piroettare traballanti pasticceri al proscenio, con enormi torte colorate, all’avvio del Finale I e del relativo quadro di matrimonio coatto: certi spunti brillanti dell’accompagnamento strumentale, tipici del melodramma romantico coltivato a Napoli, sono qui presi come allusione buffa o grottesca, e costano uno sprovveduto ribasso da tragedia a farsa. È sbagliato, poiché implica a sua volta il ridicolo, rendere il chiuso e oscuro sepolcreto dell’ultimo quadro come un parco dove Giulietta è abbandonata, su un triclinio, en plein air. È sbagliato per concetto, infine, trasformare i Capuleti nei sostenitori di un regime dittatoriale e i Montecchi nei terroristi che resistono con attentati: obiettivo di un buon drammaturgo dovrebbe essere mostrare l’inutilità dei conflitti tra clan, non certo inscenare le buone ragioni onde tenere i figli adolescenti lontani dai cattivi gruppi. Ci fosse almeno un meticoloso lavoro con attori e masse, nell’assurdo periodo che obbliga a portare mascherine in palcoscenico, si potrebbe soprassedere al resto: ma non è questo il caso.

La partitura dei Capuleti e i Montecchi fu già cara a un Claudio Abbado e a un Riccardo Muti, e reca responsabilità importanti sia per la sua tradizione esecutiva sia per l’alto valore in sé. Concertata da Speranza Scappucci, fa soprattutto il paio col comparto visivo e teatrale. Si tratta qui di una direzione professionalmente monocorde, avara di escursione agogica, dinamica e coloristica nel vivo del discorso, alternata tra cantabili lasciati a macerare querulamente sottotempo e – senza via di mezzo – improvvisi sprazzi di meccanica, secca, grigiastra garibaldineria. Nel particolare, per esempio, l’introduzione alla cavatina di Giulietta non tradisce alcuna ansia, purezza, melancolia; nel generale, la stessa celestiale cavatina non incanta, lo strappalacrime rondò della protagonista non commuove e la sfida armata di Romeo e Tebaldo non infiamma. Quel ch’è peggio, la sintonia risulta scarsa non solo con ritmo e canto belliniani, ma anche col mestiere del cantante, cantante il quale si ritrova poco assecondato pure nelle necessità di base – il giusto respiro, della macchina canora oltre che del flusso melodico – o nelle buone proposte presentate a un podio che le ignora. Orchestra e coro scaligeri ottimi per tecnica, ma poeticamente richiesti di troppo poco.

Si diceva dell’insensibilità al contributo artistico dei cantanti. Enorme è quello di Lisette Oropesa, che gioca – e sarebbe disposta a giocare assai più: lo si percepisce – di continua varietà d’accento, graduando in innumerevoli modi, sempre con risorse musicali pure, i sospiri, gli aneliti, i palpiti di Giulietta. Preparata, ispirata, forbita, con mai un gesto canoro di troppo, invola ogni frase sul fiato, omogenea in tutti i registri, graduando e direzionando l’enunciato con intonazione ineccepibile. A volergliene imputare una, si direbbe che non è una virtuosa atta alle prodezze senza rete di Edita Gruberova o Mariella Devia: la messa di voce tentata e fallita all’avvio della cavatina, nell’ultima recita domenicale, ne fa testimonianza. Ma non v’è oggi una parte belliniana più adatta alla vocazione della Oropesa, e non v’è certo un’interprete con più trepida levità virginale per Giulietta. Accanto alla certezza del soprano statunitense, una bella sorpresa, come Tebaldo, è Jinxu Xiahou: già tenore-utilité dell’Opera di Stato di Vienna sotto la sovrintendenza di Dominique Meyer, è stato portato con sé da quest’ultimo alla Scala, e va ammirato per naturalezza di pronuncia, porgere e timbro, nonché per continuità dell’aggraziata eppure consistente linea vocale.

«Bisognerebbe avere gli acuti», sentenzia con voce ferma uno spettatore al termine della sortita di Romeo, eseguita da Marianne Crebassa, odierna gloria francese del canto. Bisognerebbe avere anche avere una dizione non ostrogota e artefatta; un’arte attoriale non espressivamente inerte; la statura minima per competere, insomma, con le varie Anna Caterina Antonacci, Daniela Barcellona e Sonia Ganassi che si sono cimentate nella stessa parte con ben altro profitto e senza scomodare il nome della Scala. La diagnosi è severa: quel registro acuto stiracchiato, faticoso, sfocato e duro pare frutto dell’ostinazione a pompare i suoni centro-gravi in un petto calcato e sordo, lungo un’emissione slegata e percorsa da un vibrato di salute sospetta, con timbro caliginoso, di modesta attrattiva, inadatto alla limpida, risoluta, amorosa giovinezza del personaggio. Di conseguenza, non bene i passaggi d’agilità – le celebri variazioni di Gioachino Rossini sono eluse a priori – né la doverosa esattezza dell’intonazione; con la peggiore delle sfortune finali: lavorare accanto non solo al pietroso Jongmin Park, quale Capellio, ma anche e soprattutto all’altro e principale basso, Michele Pertusi, che come Lorenzo extralusso è il lasciapassare vivente del miglior canto all’italiana.


 

 

 
 
 

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