L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Dramma corale

di Luigi Raso

Samson et Dalila torna al Teatro di San Carlo con una produzione in cui s'impone soprattutto la splendida prova del coro preparato da José Luis Basso.

NAPOLI, 29 settembre 2022 - Samson et Dalila come un kolossal storico girato ad Hollywood o a Cinecittà tra gli anni ‘40 e ‘50 del secolo scorso. È questa la cifra connotativa dello spettacolo, proveniente dalla Staatsoper Unter den Linden di Berlino, firmato dal regista e sceneggiatore argentino Damián Szifròn, il quale ambienta ai tempi della dolorosa vicenda biblica del popolo ebraico vessato dai Filistei la storia di seduzione tra Dalila e Sansone, della conseguente caduta nell’abisso di Sansone e del successivo nichilistico riscatto. Le bellissime scenografie di Etienne Pluss, gli altrettanto curati costumi mediorientali di Gesine Völlm ci restituiscono un quadro storico sostanzialmente ossequioso delle didascalie del libretto. L’ambientazione orientale, con cangianti e stellati cieli crepuscolari, l’antro della dimora di Dalila, il tempio di Dagon, le vesti degli ebrei nettamente distinte da quelle opulente dei Filistei, il gioco delle luci curato da Olaf Freese, insomma tutto l’immaginario di orpelli che si pretende da un’ambientazione “tradizionale”, come di uno Zeffirelli d’antan, e contribuisce a confezionare uno spettacolo dall’innegabile fascino visivo.

Tuttavia, ad ulteriore conferma della dicotomia tra impianto scenografico e costumi da un lato, e regia dall’altro, si nota che a tanta opulenza e suggestione visiva corrispondono poche, e talune molto discutibili, trovate registiche.

Nel corso dello spettacolo si ha l’impressione che tensione drammatica e intuizioni registiche si affievoliscano a poco a poco: si inizia, sulle note del meraviglioso coro “Dieu! Dieu d’Israël!”, con il toccante e potentissimo, dal punto visto drammaturgico, episodio del funerale del bambino ebreo, pianto, vestito, adagiato in una lettiga e accompagnato pietosamente dai genitori. Un bozzetto che è un pugno nello stomaco sferrato agli spettatori a freddo, che ci induce a ricordare che ancora oggi, a distanza di più di tre millenni dalle vicende bibliche di Sansone, proprio a Gaza quel tipo di scene sono ancora tragicamente attuali e usuali.

Ma dopo il guizzo iniziale, lo spettacolo langue d’inventiva; non emerge un percorso drammaturgico che sviluppi un’idea registica originale e riconoscibile. Anzi, la recitazione e il movimento delle masse sono alquanto convenzionali; per render più vivo l’impianto si ricorre ai doppi danzanti che, nel secondo atto, mimano l’amore tra Sansone e Dalila: è amore fecondo, allietato dalla nascita di prole! Mah...

Si indugia e ci si compiace, secondo i dilatati tempi cinematografici, di una violenza eccessivamente truculenta: troppo frequentemente i Filistei sono rappresentati come i tagliagole di Daesch; lo stupro di Sansone su Dalila, nel concitatissimo finale del duetto dell’atto II, è rappresentato con calligrafica crudezza; infine, Dalila nel sottofinale di Damián Szifròn uccide il sommo Sacerdote di Dagon.

A dare la giusta dose di orgiastica sensualità al Bacchanale sono le bellecoreografie di Tomasz Kajdański.

Sul versante musicale, la direzione di Dan Ettinger spicca per capacità di infondere energia all’orchestra del San Carlo, nella consueta ottima forma, e per la capacità di evidenziare colori e - la sinestesia è qui d’obbligo - profumi della raffinata orchestrazione di Saint-Saëns che la compagine sancarliana è perfetta ad approntare. Tra affondi sonori, talvolta eccessivi, cura delle dinamiche, uso del rubato, perfetto accompagnamento e sostegno delle voci, amalgama tra coro e orchestra, distensione agogica (molto suggestivo il citato coro iniziale, staccato con tempi indugianti che esaltano l’intensità del lamento degli ebrei) ne risulta una concertazione plastica, muscolare, curata in modo da assicurare equilibrio tra l’affollato palcoscenico e la buca orchestrale e una lettura ricca di suggestioni e screziature timbriche della partitura di Camille Saint-Saëns.

Tra i protagonisti di Samson et Dalila è da annoverare senza riserve il Coro, per la vastità e, soprattutto, la complessità della parte che il libretto di Ferdinand Lemaire e la musica di Camille Saint-Saëns gli affidano. Ebbene, quella di stasera è da ricordare come prova superlativa del Coro del Teatro San Carlo, istruito e guidato da José Luis Basso. Sin dall’inizio si resta impressionati dalla coesione vocale, dal colore cinereo del meraviglioso coro iniziale, dalla sua intensità drammatica. Ma è l’intera compagine, nella sezione maschile e in quella femminile, a farsi apprezzare per la varietà di colori e dinamiche, per la potenza del volume, per la capacità di creare atmosfere sonore evanescenti e aeree, che quasi riescono ad evocare quei profumi orientali che il corredo iconografico fa immaginare. Ciò che impressiona questa sera, in definitiva, è l’emozione e l’empatia che il Coro riesce a trasmette, la capacità di far sentire anche gli spettatori “dentro” il coro.

Tra i tanti apprezzati esiti ai quali ci stiamo abituando, questo di Samson et Dalila è uno tra i più lusinghieri: una di quelle prove che contribuiscono - così come accadde, tra le varie, per il Lohengrin del 1995 - a rammaricarsi per il già annunciato distacco (dalla stagione 2023 - 2024) di José Luis Basso dalla guida del Coro del San Carlo.

Archiviati analisi e apprezzamenti della prova del Coro, esaminiamo quelle degli altri protagonisti.

Il nome in locandina di Anita Rachvelishvili faceva sperare in una Dalila ammaliante, dallo sfoggio vocale lussuoso e coinvolgente, dall’interpretazione magnetica. Non che la Rachvelishvili deluda, ma il mezzosoprano georgiano appare al di sotto delle - elevate, in verità – aspettative. Dopo un inizio (“Je viens célébrer la victoire) non del tutto convincente, dalla linea vocale non sempre immacolata e a fuoco, la sua prestazione è in crescendo; eppure permane nel corso della serata l’impressione di trovarsi davanti a un fenomeno vocale, ma talora in difficoltà nel rendere omogenei i propri registri vocali, nel cesellare l’emissione. Tuttavia, emerge la figura di una Dalila, ora sensuale ora belluina, che una miglior forma e organizzazione vocale avrebbe senza dubbio contribuito a scolpire con maggiore plasticità.

Chi sfoggia, invece, una vocalità granitica, omogenea, possente, con registro acuto squillante, sicuro e proiettato è Brian Jagde, il quale, al suo debutto come Samson, aggiunge al proprio repertorio la defatigante parte con onore. Se vocalmente Brian Jagde è ben più che convincente, dal punto di vista interpretativo e psicologico il personaggio di Samson è da approfondire: la concezione del personaggio si snoda tra le coordinate dell’aspetto eroico e quello tribunizio del giudice biblico, risultando soltanto abbozzati gli aspetti languidi del II atto e quelli dolorosi e di penitenza del III, durante la Scena della macina “Vois ma misère, hélas! vois ma détresse!” (per la cronaca, la macina non c’è: Samson, come altri prigionieri, ha le mani alzate e legate a una corda che pende dall’alto). Non si pretendono gli abbandoni lirici e le macerazioni che esprimevano i Samson di Ramón Vinay, Jon Vickers e Plácido Domingo, ma proporne uno sintonizzato prevalentemente (se non esclusivamente) sull’aspetto eroico e sulla forza vocale e fisica, seppur ben cantato, appare limitativo per la giusta connotazione del personaggio stesso.

Ernesto Petti nei panni sontuosi del sommo sacerdote di Dagon si impone per una vocalità di prim'ordine, dal caldo e suggestivo smalto, dal rilevante peso specifico. Il suo è un Sommo sacerdote torvo e imperioso, credibile anche scenicamente.

Roberto Scandiuzzi si regala un cameo interpretando il vecchio ebreo: nella parte, piccola ma significativa, il grande basso italiano condensa lo smisurato bagaglio di esperienza vocale e teatrale che la più che quarantennale carriera gli porta in dote. Ai grandi artisti bastano poche frasi per mostrare i loro carati, resistenti anche agli inevitabili strali del tempo.

Nei ruoli secondari fanno bene l’Abimelech di Gabriele Sagona, il Messaggero di Antonio Mezzasalma e, nei due filistei, Mario Thomas e Sergio Valentino, questi ultimi tre esperti, precisi e bravissimi artisti dell’ottimo Coro del San Carlo.

E sono prolungati e calorosi gli applausi che il pubblico del San Carlo - decisamente più folto rispetto ai precedenti appuntamenti! - decreta al termine dello spettacolo.

Applausi per tutti gli interpreti vocali, per José Luis Basso e il Coro; molto apprezzato il prossimo Direttore musicale Dan Ettinger; qualche isolato ma udibile dissenso per gli artefici della regia.


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