L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il bianco e il nero

di Roberta Pedrotti

Applausi per l'inaugurazione del Festival Verdi a Parma con I lombardi alla prima crociata. La nuova produzione può contare sulla perfetta comunione d'intenti fra Pierluigi Pizzi e Francesco Lanzillotta. Nel cast l'esperienza e la classe di Michele Pertusi, l'incisività e la differenziazione timbrica dei due tenori Antonio Corianò e Antonio Poli, la vocalità fra luci e ombre di Lidia Fridman.

Un taglio alla Fontana fende il bianco della scena. Così si apre e si chiude la nuova produzione dei Lombardi alla prima crociata, inaugurazione del Festival Verdi 2023. È Pierluigi Pizzi a siglare con questo gesto la cifra della serata e dell'opera stessa, con la sua drammaturgia schematica, per quadri ben distinti, elusiva dello sviluppo psicologico dei personaggi in una divisione in teoria manichea, ma che in realtà lascia davvero poco scampo. Il libretto di Temistocle Solera nelle intenzioni porrebbe i crociati e la cristianità in una luce positiva, che però, specie per noi moderni, viene messa in continuo in discussione. Qualunque colpa – sia essa il parricidio involontario ma con la volontà di fratricidio o l'essere semplicemente nato e cresciuto con altra fede, senza grande differenza – si emenda in punto di morte con il battesimo o la conquista di Gerusalemme; intanto, la croce è associata alla spada e “per l'aure balena d'una luce sanguigna, tremenda” e le uniche parole sensate son dette dalla protagonista nel delirio (“No!... Giusta causa - non è d'Iddio | la terra spargere - di sangue umano”) e sono accolte con sdegno come sacrilegio, mentre tutto si ricompone nel momento in cui la stessa inneggia alla guerra santa. Bianco o nero, giusto o sbagliato, nel punto di vista dei personaggi, anche se quegli stessi colori si possono ribaltare, come in un negativo, nella prospettiva del pubblico e dell'interprete moderno. Così, lo spettacolo di Pizzi, a partire da quel taglio nero che fende l'incrollabile certezza del bianco, prima come ferita e poi, forse, come apertura, è tutto giocato sui due colori prediletti, con pennellate pure nei toni del blu e del viola (con tocchi complementari giallo arancio, all'occorrenza, per accenderli ancor più) nelle scene “arabe”, in cui anche la strumentazione e l'articolazione ritmica si colorano per enfatizzare l'esotismo e l'alterità. Un Pizzi tipico, insomma, nell'iconografia, con le proiezioni che, come simulazioni architettoniche, raccolgono l'eredità con nuovi mezzi di scene dipinte, effetti di luci e fantasmagorie ottocentesche. Senza cedere a facili sirene metateatrali, un pizzico di astrazione e insieme omaggio al lavoro in buca e dietro le quinte viene dai musicisti in scena (fra cui Mihaela Costea, giustamente applauditissima nel celebre solo di violino, Elena Meozzi all'arpa, il maestro del coro Martino Faggiani). Piaccia o meno, lo stile è tanto definibile che diventa per lo più questione di gusto; solo il finale ci pare abbia un po' perso la linea purissima che – piaccia o meno, diventa mera questione di gusto – aveva caratterizzato tutto lo spettacolo: alla prima il levarsi in piedi di Pagano già morente, risorto in una nuova prospettiva di pace, con le vittime della battaglia in un abbraccio collettivo si è realizzato in maniera un pochino goffa e l'apparizione dei due bambini, speranza per un futuro di pace e musica, a rischio leziosaggine.

Il bilancio è comunque positivo, anche perché questa inaugurazione si è distinta per la fondamentale comunanza d'intenti fra palcoscenico e podio, con Francesco Lanzillotta non ancora rimessosi appieno dall'incidente di agosto (costretto a muoversi in sedia a rotelle, non sale in proscenio nemmeno per i saluti finali) ma tornato a impugnare la bacchetta. La sua è una versione che all'abbandono travolgente predilige un contegno verticale, una chiarezza che sembra fare pendant con le linee classiche delle cornici sceniche, delle architetture lombarde sintesi di romanico e rinascimentale, delle candide cupole moresche. L'impeto opposto e speculare di violenza lussuriosa o mistica nelle due arie di Pagano (“Sciagurata, hai tu creduto” e “Ma quando un suon terribile”) non freme nervoso negli accenti degli archi, piuttosto procede cupo, quasi sordo e rende ancor più evidente la scelta di un Verdi stilizzato più che sanguigno, sebbene il vigore nei passi più bellicosi non manchi. Ottima e duttile in questa visione la prova della Filarmonica Toscanini, dell'Orchestra giovanile della Via Emilia (banda in palcoscenico) e del coro preparato da Martino Faggiani.

A vent'anni dal suo primo Pagano al Regio, Michele Pertusi è giustamente festeggiatissimo dai suoi concittadini: la parte non ha segreti per lui e anche là dove la voce possa aver perso un po' di smalto nel registro grave, la sapienza dell'artista non perde un colpo e, anzi, mette a frutto ogni sfumatura del timbro per dare vita ancora una volta all'assassino penitente, fanatico, redento. Con l'energia e la franchezza della prima volta, con l'esperienza dell'ultima: è un personaggio vibrante, passionale, ma pure corroso, inappagato, esausto, capace di passare dall'esaltazione allo scoramento senza sfiorare l'isteria, anzi, con profonda umanità. Luca Dall'Amico nei panni di Pirro gli è buona spalla.

Ben bilanciata anche la coppia dei tenori, con Antonio Corianò (per di più reduce da una sostituzione in extremis alla generale del Trovatore) a dar vigore e nobile chiarezza ad Arvino, parte lunga e ostica, nemmeno gratificata da un cantabile di bell'effetto come invece tocca in sorte al principe Oronte: Antonio Poli, peraltro, onora “La mia letizia infondere” con bella vocalità lirica e lucente, oltre che con adeguate variazioni nella cabaletta.

Nel parco dei personaggi principali, merita qualche distinguo in più la Giselda di Lidia Fridman, che ritroviamo in un Verdi con la regia di Pizzi dopo il Macbeth marchigiano di un anno fa[Fermo, Macbeth, 12/11/2022]. Pur nella sostanziale differenza psicologica, l'associazione non è peregrina (gli stessi Lombardi, tanto acerbi sotto vari punti di vista, hanno almeno nel finale primo, con la scoperta nella notte di un omicidio a tradimento e la maledizione dell'assassino, un antecedente del futuro titolo shakespeariano) nella vocalità. Tuttavia, proprio il carattere positivo di Giselda, la sua purezza nella fede e nell'amore, esigono un'emissione belcantistica che non ammette facilmente le stesse asperità possibili per la Lady. In buona sostanza, Fridman sa essere senz'altro suggestiva per la figura ben esaltata dal costume di Pizzi e per la cura del cantabile, tuttavia l'articolazione della parola non è sempre nitida, soggiacendo a una ricerca del suono sovente coperto, incupito. L'omogeneità a tutti i costi, specie in questo repertorio, non è un valore assoluto e necessario, ma senz'altro i segni di stanchezza nell'invettiva del finale secondo o nella polacca del quarto, con acuti sempre un po' troppo tesi, potrebbero mettere in guardia sulla tutela di questo fascinoso, indubbio talento. Soprattutto all'avvicinarsi dei debutti come Abigaille in Nabucco e Amelia in Un ballo in maschera.

Completano il cast l'ottima Viclinda di Giulia Mazzola, la Sofia squillante nel recitativo di Galina Ovchinnikova, il Priore di Zizhao Chen e l'Acciano di William Corrò.

Alla fine, dieci minuti di applausi e bilancio più che positivo per questa apertura del primo Festival Verdi dopo i cambi al vertice del Regio.


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