Buchbinder e Mozart
Rudolf Buchbinder torna nei cartelloni dell’Accademia, in qualità di direttore e pianista, con un programma tutto mozartiano: il Concerto per pianoforte e orchestra n. 27 in si bemolle maggiore K 595, il Concerto per pianoforte e orchestra n. 21 in do maggiore K 467 e, infine, il Concerto per pianoforte e orchestra n. 20 in re minore K 466.
ROMA, 21 novembre 2024 –Rudolf Buchbinder è un pezzo di storia ed ascoltarlo permette di entrare in contatto con un senso della musica, con un sound, che rimanda alla più pura tradizione mitteleuropea di metà ‘900. Il programma che presenta è dedicato monograficamente a Wolfgang Amadeus Mozart, in particolare al Mozart concertista per pianoforte. Dei concerti per pianoforte ed orchestra del connazionale austriaco, del resto, Buchbinder è fra gli interpreti di riferimento, come testimoniano le numerose incisioni di gruppi di concerti e l’integrale con i Wiener Symphoniker nel 2017.
Si inizia, in realtà, dalla fine, cioè dal Concerto n. 27 K 595, l’ultimo scritto da Mozart. Una scelta insolita, forse persino discutibile: il K 595, dal carattere delicatamente malinconico, è forse poco d’effetto come pezzo di apertura – e, con ogni probabilità, lo sarebbe stato anche come brano di chiusura: meglio, dunque, una posizione mediana? Come che sia, Buchbinder approccia subito la partitura con un’idea ben precisa, come direttore e come interprete. L’agogica è tenue, mai sforzata: Buchbinder tende a dilatare lievemente i tempi, esaltando la componente puramente sonora, più che l’intelaiatura ritmica. Il suono dell’orchestra dell’Accademia è magnifico; Buchbinder dà i tempi e gli attacchi con semplici cenni degli occhi e del viso, talvolta dirigendo, pacatamente, con il braccio sinistro. L’Allegro, dai mirabili effetti contrappuntistici, nella trama orchestrale e nella scrittura pianistica, scorre con un effetto di certa intimità biedermeier. Il pianismo di Buchbinder ricerca una naturalezza senza sforzo, non si preoccupa di un’asettica bellezza sonora, ma punta sull’eleganza del gesto, il tutto condito con un’intensa musicalità dell’interprete. Le frasi sono splendidamente spaginate: si pensi all’intimità del Larghetto, le cui frasi sembrano semplici da leggersi ma celano l’insidia di un colore cangiante che va sempre ricercato. Colore che l’orchestra e Buchbinder hanno il talento di saper trarre anche dall’Allegro finale, dove l’interprete incide le frasi con autunnale fragranza sonora, leggendo un concerto «così alieno dai giovanili ardori, [che] possiede quei tratti di amaro disincanto e nobile compostezza che contraddistinguono le stagioni creative del congedo» (E. Girardi, dal programma di sala). Anche la scelta di eseguire, successivamente, il Concerto n. 21 K 467 è singolare, giacché si tratta, invece, proprio di quello che possiede il maggior ardore (per prendere a prestito le parole di Girardi), nella potente tonalità di do maggiore: insomma, il concerto più assertivo dei tre. L’orchestra aumenta lievemente in potenza, con l’aggiunta di membri, mentre Buchbinder rinvigorisce, gentilmente, il suo pianismo: l’Allegro maestoso, con le frizzanti frasi degli archi arricchite da timpani ed ottoni, risulta di impareggiabile brillantezza. Buchbinder rallenta leggermente l’agogica per scavare ogni passaggio: mi viene in mente la superba naturalezza del primo trillo, con il chiaroscurale sviluppo che sfocia nell’elegante tema d’impianto, celebre per la bellezza della melodia. Indimenticabile la settecentesca eleganza dell’Andante, che l’orchestra interpreta con tatto soffuso, mentre il pianoforte (la mano sinistra che arpeggia, mentre la destra canta melodiosa) si libra su corde che ricordano quelle di un incontro amoroso, segreto, fra le fronde di un giardino all’italiana. Il Concerto n. 21 termina nel brioso Allegro vivace, una fontana di passaggi brillanti, ariosi, virtuosistici.
Il secondo tempo conclude la serata con l’esecuzione del Concerto n. 20 K 466, che con il K 467 forma una sorta di dittico. Il fatto è che la tonalità d’impianto, il re minore, lo rende particolarmente drammatico, in anticipo su molte venature melodiche romantiche; quindi, una scelta particolare, certamente voluta da Buchbinder, che ha deciso di aprire il concerto con il malinconico K 595 e di chiuderlo con il drammatico K 466. L’agogica tendenzialmente rilassata scelta da Buchbinder qui ha l’effetto, come si è notato nell’attacco, quasi Sturm und Drang, dell’Allegro, di acuire l’atmosfera di sospensione. L’interprete si prende il suo tempo, giocando con i volumi, con le sfumature ed i colori, restituendo un lavoro di cesello che accresca una certa qual sotterranea, lieve angoscia che pervade il pezzo. Con il secondo movimento (Romance) si viene trasportati in un bosco fatato: la tenera dolcezza delle frasi del pianoforte è espressa con acquatica precisione da Buchbinder, che gioca con l’orchestra in lievi rallentamenti, morbidamente porti nel contesto ritmico del movimento. È il pianoforte ad attaccare l’Allegro assai, che si distingue, ancora, per intensità drammatica: i colpi dei timpani ed i frulli degli archi aprono ai virtuosismi del pianoforte. Il tutto si conclude con un finale solare, sorretto dal pianoforte e dai legni. Il pubblico applaude un’ottima serata di musica.
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