I volti della Fortuna
All’Accademia di Santa Cecilia debutta Dalia Stasevska in un bel concerto dedicato a Jean Sibelius (Il cigno di Tuonela e Il ritorno di Lemminkäinen, dalla suite Lemminkäinen op. 22, poi il celebre poema Finlandia) e agli amati Carmina Burana di Carl Orff. Oltre alle maestranze dell’Accademia (Coro e Orchestra) intervengono come solisti Giuliana Gianfaldoni, Marco Santarelli e Mattia Olivieri.
ROMA, 12 dicembre 2024 – Affascinante, dall’esotico anticonformismo, Dalia Stasevska si presenta sul palco con un abito morbido, maculato, di nordica bellezza. Ucraina di nascita, finlandese d’adozione, la Stasevska inizia il suo concerto con due brani dell’amato Jean Sibelius, da lei assiduamente frequentato. Due pezzi dalla suite Lemminkäinen op. 22, che mette in musica il Kalevala, saga epica ottocentesca basata su canti tradizionali finnici. Una gioia per Sibelius, notoriamente alla ricerca delle più intime radici della sua nazione. Stasevska inizia con Il cigno di Tuonela, ispirato all’omonimo animale fantastico del Kalevala in grado di indurre alla morte con il suo ammaliante canto. La direttrice mostra fin da subito i suoi talenti: colori accesi, suoni netti, campiture e volumi generosi. Il pezzo è pregno di malinconia, soprattutto grazie all’ambrato timbro del corno inglese; Stasevska ne allunga le frasi, acuendo il senso di nordica tristezza. Di ethos differente è il successivo pezzo, Il ritorno di Lemminkäinen, un pezzo dal carattere robusto, ritmato, militare: la direzione è vigorosa, azzeccata. La sezione monografica su Sibelius termina con un’indimenticabile esecuzione di Finlandia, nella versione con coro. La Stasevska scolpisce frasi robuste, che si elevano con potenza; il brano cresce in intensità, con un rullo di tamburi ad incitare l’orchestra e l’interprete non lascia nulla al caso, sfrenando le maestranze ceciliane con effetti magnifici. Ecco che giunge il celebre tema, cavalcante, quasi rampante. Il coro giunge, sublime, a cantare i versi di Koskenniemi. Gli applausi risuonano in sala.
Nel secondo tempo Stasevska si misura con i famosi Carmina Burana di Orff. Ancora, della sua sensibilità artistica si apprezza la nettezza, il vigore espressivo. L’agogica è sempre domata con maestria, senza mai cadere nella monotonia. All’attacco del coro nell’ «O Fortuna» si apprezzano pure le straordinarie doti di questo ensemble. Compattezza sonora, controllo dei volumi, tavolozza dei colori radiosa. Si pensi alla sezione, a fior di labbra, che costituisce il nucleo proprio del brano di apertura; o all’ipnotico «Veris laeta facies», dove tutti gli interpreti eccellono nel modulare frasi dal sapore antico; o, ancora, alla brillante gioia di «Floret silva nobilis». Non si può non citare, poi, l’incalzante «In taberna quando sumus», che sprigiona energia ad ogni nota. Anche gli interpreti solisti donano una brillante performance. Deliziosa «Olim lacus colueram», la cosiddetta ‘Elegia del cigno arrostito’, interpretata da Marco Santarelli, tenore del coro dell’Accademia, con impareggiabile ironia, giocando sul registro in falsetto e non facendo mancare qualche piuma per evocare meglio la sorte dell’infelice pennuto. La parte del soprano è affidata a Giuliana Gianfaldoni, dall’emissione morbida e dal timbro vellutato, assolutamente perfetta per la sezione Cour D’Amours: delicatissimo il suo canto in «Amor volat undique», sospesa la linea del canto in «Stetit puella». Una doverosa menzione è il suo smorzando, magistrale, all’apertura di «Dulcissime, ah!» (sul si naturale sovracuto): il pubblico ha trattenuto il fiato tanta ne era la bellezza. Magnifica la performance di Mattia Olivieri: il suo timbro nobilmente brunito e la voce educatissima, dall’emissione tersa, uniforme, pastosa, lo rendono tra i baritoni italiani più interessanti oggi in attività. Il fraseggio è ricchissimo di colori: «Omnia sol temperat» ne è, forse, l’esempio migliore, dove Olivieri intona un’ipnotica melodia su modulazioni medievaleggianti, curandone ogni particolare. La sua versatilità si è mostrata appieno in «Estuans interius», dal ritmo serrato, incalzante. Il suo timbro è talmente bello che fatica, quasi, ad evocare un abate ubriaco in «Ego sum abbas Cucaniensis». Questa sua naturale bellezza vocale, melliflua, è perfettamente adatta agli accenti elegiaci di «Dies, nox et omnia» (dove l’interprete è messo alla prova da cambi di ritmo e dall’uso del falsetto). Più netta, robusta la serenata «Circa mea pectora», che dona all’interprete un pezzo quanto mai adatto per congedarsi. Alla fine, la ripetizione di «O Fortuna», ancor più energica della prima, chiude i Carmina Burana:gli applausi invadono la sala, suggellando un meritatissimo successo.
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