L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La charmante

 di Stefano Ceccarelli

Anna Caterina Antonacci torna all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con un colto recital di musiche primonovecentesche: le Cinq melodies populaire grecques di Maurice Ravel, le Études laines e il ciclo Venezia di Reynaldo Hahn, Deità silvane di Ottorino Respighi e, infine, Le travail du peintre e Le dame de Monte-Carlo di Francis Poulenc. Al pianoforte accompagna Donald Sulzen.

ROMA, 18 dicembre 2024 – L’eleganza che trasuda Anna Caterina Antonacci si percepisce non solo nel suo canto, ma anche nella teatralità misurata ma intensa del suo incedere, della sua gestualità: della prossemica del suo corpo sul palco. Antonacci è arrivata alla maturità della carriera, eccellente sotto vari punti di vista, ma soprattutto per l’oculatezza, l’attenzione con cui ha affrontato il repertorio che sentiva a sé più congeniale. Una cantante intelligente come poche, che ha saputo capitalizzare le sue doti migliori: lo charme, l’inconfondibile timbro vocale, la regalità della presenza scenica. La Antonacci sceglie di tornare davanti al pubblico romano, quello dell’Accademia di Santa Cecilia, presentando un repertorio che recentemente sta affrontando con regolarità: quello delle mélodies francesi, non facendosi mancare incursioni anche in quelle italiane.

Il programma inizia con le Cinq mélodies populaires grecques di Ravel. Il profumo inconfondibilmente esotico della loro semplice linea, l’allure che richiama le litanie ortodosse e le sonorità che sono nel sangue dei greci fin dalla loro epoca di splendore vengono interpretate con maestria dalla Antonacci, che ha proprio nel fraseggio e nella sensibilità musicale le doti migliori che l’hanno sempre contraddistinta come interprete. Si pensi alle frasi pregne di tenera nostalgia che la cantante porge in Chanson des cuilleuses de lentisque, modulando ipnoticamente i giri di accordi, vera essenza della musica popolare. Sulzen accompagna con tocco vellutato e sensibile, tenendo l’agogica cullata: l’acquatico incedere di Le réveil de la mariée, come pure l’eco dello scampanio in Là-bas, vers l’eglise, rappresentano un buon esempio del genio arrangiatore di Ravel, che ha conferito a melodie tradizionali greche, infuse di sonorità ottomane, una veste colta, dal sapore impressionistico fin de siècle. Si passa, poi, a Reynaldo Hahn, compositore oggi meno conosciuto di Ravel ma non certo meno interessante. Amabile salottiere, eccellente musicista e amante di Marcel Proust, Hahn ha attraversato un’epoca intensa per sperimentalismi e idee. La Antonacci presenta due cicli del venezuelano (di origini): Études latines e Venezia. Il primo, che ha avuto la sua gestazione proprio a Roma, ha un gusto marcatamente classico e le parole di M. Mariani (dallo splendido programma di sala) mi sembrano le migliori per comprendere il lavoro interpretativo della Antonacci: «la purissima linea melodica è in perfetto equilibrio con l’eleganza del verso, l’armonia è limpida e semplice (le dissonanze sono quasi totalmente assenti) e a tratti immobile come un bassorilievo classico». Le immagini classiche, arcadiche, s’inargentano attraverso il fraseggio ed il melodiare della Antonacci, che increspa la lettura delle frasi di colori sempre cangianti, cogliendo l’emozione che in quel momento il compositore vuole trasmettere. Il suo mezzo vocale brunito, morbidamente bronzeo è perfetto per l’essenza delle Études latines: «una idealizzazione del mondo antico visto come perfezione formale e allo stesso tempo immerso in una luce tardoromantica, malinconica, nostalgica, commossa e un po’ sentimentale» (sempre Mariani, dal quale saccheggerò ancora senza ripeterne il nome). Nel secondo ciclo, Venezia, la Antonacci dà prova della sua versatilità: il tono si fa popolare, meno aristocraticamente arcadico. Se alcuni brani sono malinconici (La barcheta), negli altri la difficoltà sta proprio nel cogliere l’allure precipuamente veneziano. Sulzen si assesta su un ritmo di barcarola, a tratti puramente liquido (come in Sopra l’acqua indormenzada), a tratti più spumeggiante, permettendo alla Antonacci di giocare sulle frasi, di sottolineare i vari momenti con fraseggi carichi di amenità vocali. Vorrei fare solo un esempio fra i tanti possibili: il pubblico avrà notato il modo in cui la Antonacci ha caratterizzato l’io poetico in Che pecà, evocando la rozza malinconia di un gondoliere.

Il secondo tempo si apre con Deità Silvane di Ottorino Respighi, che ha avuto battesimo proprio nei programmi dell’Accademia di Santa Cecilia, più di un secolo fa. La Antonacci irrobustisce la linea del canto, il pianoforte di Sulzen coglie ogni evocazione naturale che Respighi intelaia all’interno di un discorso gentilmente ritmato, di arcadico nitore. L’interprete sa cogliere con abbandono sensuale, decadente (una cifra stilistica particolarmente in linea con l’essenza artistica della Antonacci) quella «sensibilità speciale, ammantata di decadentismo ma capace di immergersi in quei sogni e in quelle visioni, di identificarsi con quel mondo misterioso e di sentirsi parte di quella natura». Una scrittura certo diversa è quella del Poulenc del ciclo Le travail du peintre (pezzi ispirati allo stile caratteristico di gradi pittori della storia dell’arte novecentesca). Ritmi cangianti, stili differenti, come lo sono i pittori evocati, caratterizzano questo ciclo singolare, ma ricco di perle: si pensi al fulmineo Klee, alla cangiante melodia di Miró («la più difficile a interpretare, col suo passaggio improvviso da una stridente brillantezza alla dolcezza ed al lirismo», come annota l’autore), o al conclusivo Villon, basato su un accompagnamento di valzer quasi sussultante e malinconico. La Antonacci dà voce all’immaginazione ‘pittorica’ di Poulenc, abbandonando la sua voce alle esigenze della metrica e della musica, con effetti mirabili in più di un passaggio. Il concerto è chiuso da una magnifica esecuzione del monologo teatrale, a firma di Jean Cocteau, La dame de Monte-Carlo: «in gergo teatrale la si definirebbe una scena unica, divisa in varie sezioni collegate da un tempo di base Lent et triste, a tratti più veloce e più nervoso, a seconda delle fasi di rassegnazione e ribellione che si alternano nella mente della vecchia dama». Non potrebbe esservi pezzo migliore, per la Antonacci, per concludere il concerto, lei che trasuda genuina teatralità da tutti i pori: l’esecuzione è indimenticabile, sia per gli effetti, i colori, le nuances che l’interprete riesce a cavarne, sia per l’eleganza sublime con cui la cantante articola i disperati sentimenti della voce narrante in questa «musica fondamentalmente triste ma senza patetismo». Gli applausi invadono la sala: una standing ovation. La Antonacci si congeda con due bis: una frizzante interpretazione della canzone tradizionale napoletana Lu cardillo (che la cantante è costretta ad interrompere e riprendere per un lieve passaggio a vuoto, accompagnata dagli affettuosi applausi del pubblico) ed un’intimistica, cameristica versione dell’habanera, «L’amour est un oiseaux rebelle», dalla Carmen di Bizet.

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