L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Formula e forma

di Roberta Pedrotti

Nella ripresa del Trovatore coprodotto con il Festival Verdi, con l'efficace concertazione di Renato Palumbo, spicca a Bologna la prova di Marta Torbidoni.

BOLOGNA, 18 febbraio 2024 - Dopo il debutto nel Festival Verdi [Parma, Il trovatore, 24/09/2023], Il trovatore coprodotto da Parma e Bologna approda al Comunale Nouveau e i limiti del nuovo palcoscenico, oltre a vincolare i nuovi allestimenti, tornano a colpire quelli nati altrove, sebbene in previsione anche di questo spazio. Ottima cosa, non si discute, aver approntato una nuova sala per proseguire con l'attività regolare durante i lavori in Piazza Verdi; si può far volentieri buon viso alla soluzione salvagente, ma nemmeno si può negare che sia facile rimpiangere l'acustica del Bibiena e che questo boccascena largo e basso soffochi molte scenografie, compresa questa di Giò Forma nata per dar spazio ai video di D-Wok. Tutto risulta più cupo e schiacciato e mette ancor più in evidenza i limiti di un progetto registico (ripreso qui da Carlo Sciaccaluga con assistente Giulia Caci) che nemmeno a Parma aveva entusiasmato.

Livermore è un uomo di teatro intelligente, da tenore prima e poi da regista è entrato in profondità nelle forme dell'opera per creare un proprio linguaggio che ricrea e associa modelli e archetipi in un personale codice visivo fatto di doppi, prospettive multiple, tableau vivant, slow motion, effetti speciali ed elaborazioni video che rinnovano la vocazione spettacolare del melodramma. Questo funziona benissimo con alcuni titoli, nelle produzioni più ispirate, ma altrove la forma rischia di degradare in formula, con un processo già ben individuato a suo tempo da Boito in riferimento agli stereotipi del teatro musicale. Il trovatore non fa eccezione nel mostrare tutti i cliché del codice Livermore, accompagnando l'azione senza particolari spunti, anzi in un cupo accumulo in cui la necessità dello schema rischia di offuscare la necessità drammatica. Non sarà un caso che le scene più riuscite siano proprio quelle più minimali, come “Il balen del suo sorriso” intonato in solitudine su un fondale nero.

Se, dunque, rispetto a Parma la parte visiva già non entusiasmante risulta viepiù spenta, molto meglio vanno le cose sul versante musicale, forte di un cast equilibrato e di una bacchetta pronta a valorizzarlo. Renato Palumbo ha, infatti, ribadito la sua affinità con questo repertorio e la sua sensibilità per le voci, sempre ben sostenute con giusto respiro, senza mai una dinamica o un tempo che porti a forzare o a perdere la chiara articolazione di testo e frase musicale. Da atmosfere inizialmente notturne e rarefatte, dalla stretta del finale primo introduce fiammate più battagliere senza travolgere in inutili effetti il dettato verdiano, anzi, mostrando una buona cura del tessuto orchestrale. Spiace, però, che abbia tollerato l'arbitrio tenorile dell'assurdo (va bene che Manrico non ha fama da premio Nobel, ma non c'è bisogno di fagli pronunciare frasi spurie ancor più stupide) “Son io dal ciel disceso o in ciel sei tu con me”. L'avevamo perdonato nel ruspante Trovatore “senzaspine” dello scorso dicembre [Bologna, Il trovatore, 03/12/2023], speravamo di non trovarlo ancora nel 2024 in una Fondazione Lirica. Verdi, peraltro, concesse al tenore di unirsi al soprano sulle ultime battute del finale secondo solo nella riscrittura francese dell'opera, con testo diverso e sensato (“Tous deux soyons unis”), ma mai si sognò di intervenire accogliendo la variante nella normale versione italiana. Il passo incriminato passa sulle labbra di Roberto Aronica, che è nel complesso un buon Manrico di stampo lirico spinto, per il quale magari trilli e quartine sono più un'idea accennata che una sgranata realtà, ma che con timbro brunito, solida tenuta e piglio energico rende giustizia al personaggio. Il Conte di Luna suo rivale ha corpo e voce di Lucas Meachem, baritono interessante per pulizia d'emissione e qualità dello strumento, benché bisognoso di un'ulteriore risciacquatura in Arno per ripulire qualche consonante ancora un po' morchiosa e approfondire la contezza di stile e fraseggio. Merita attenzione anche l'Azucena di Chiara Mogini, dalla linea di canto morbida e priva di forzature, benché propensa a fiorire man mano che la tessitura sale, rivelando le origini sopranili anche in un colore che conferisce una certa qual non disprezzabile sfumatura giovanile al personaggio. Piacerebbe, pertanto, risentirla in parti più tipicamente Falcon. Nel quartetto protagonista a spiccare è comunque la Leonora di Marta Torbidoni, la più applaudita in corso d'opera e nelle uscite finali, forte di una bella vocalità dalla sana e ben controllata vibrazione, omogenea e timbrata in tutta l'estensione, spavalda nell'acuto estremo quanto morbida e naturale nel centro grave. Il soprano marchigiano si conferma una delle artiste del panorama attuale nelle quali riporre le più fondate speranze.

Nella parte non secondaria di Ferrando, Gianluca Buratto è ancora una volta robusto e incisivo, mentre Benedetta Mazzetto (Azucena in dicembre nella citata produzione al Teatro Duse) offre un inconsueto rilievo vocale a Ines. Completano la locandina il Ruiz di Cristiano Olivieri, il vecchio zingaro di Sandro Pucci e il messo di Andrea Taboga, questi ultimi elementi del coro bolognese preparato sempre bene dalla maestra Gea Garatti Ansini.

Alla fine, unanimi applausi per tutti i musicisti con picchi di consensi per Torbidoni e Palumbo, mentre Davide Livermore con i suoi collaboratori (citiamo anche la costumista Anna Verde e Antonio Castro per le luci) non scalda gli animi, registrando comunque qualche Bu con un paio di Bravo in risposta.


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