L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il bianco e il nero

di Luigi Raso

Henrik Nánási sul podio non si mostra all'altezza del capolavoro verdiano e la sua lettura, sovente superficiale e imprecisa, penalizza una ripresa di Don Carlo che vede luci e ombre anche nel cast vocale.

NAPOLI, 19 gennaio 2025 - Don Carlo torna al San Carlo dopo soli due anni (leggi la recensione): un’assenza brevissima per una delle opere di Verdi più complesse da allestire, almeno secondo gli standard medi di programmazione dei teatri italiani. Stasera viene (ri)proposta, così come a fine 2022, la versione italiana in cinque atti, quella cosiddetta “di Modena” del 1886.

Don Carlo è opera tanto complessa e profonda, una raffinata sintesi e sublimazione dei principali temi del teatro verdiano (potere, amore, morte, rapporto genitori-figli, amicizia) che ogni occasione è, almeno per i suoi estimatori, motivo di curiosità se non di gioia. È però capolavoro - il capolavoro di Verdi? - che tollera assai poco le mezze misure: occorrono un grande direttore, un cast omogeneo e di eccellente/ottimo livello, un regista che sappia addentrarsi, e districarsi, nella foresta di trame psicologiche del dramma.

Purtroppo questa ripresa appare, per il versante musicale, alquanto claudicante, abbozzata. Ma prima di provare a scrivere ciò che non è apparso convincente è necessaria una premessa che è anche imperativo morale per ogni recensione: malgrado il breve lasso temporale che ci separa dall’ultimo Don Carlo al San Carlo, nessun giudizio sarà influenzato da paragoni con gli interpreti della scorsa edizione.

Se stasera appare poco felice il risultato dell’aspetto musicale, la responsabilità va attribuita principalmente alla concertazione, poco curata in termini di pulizia, scavo e analisi, di Henrik Nánási, il quale dà subito l’impressione di affrontare la straordinaria partitura di Verdi, ricca di tinte, suggestioni sonore, di un fitto e articolato ordito di accompagnamento, con superficialità.

Non sempre è garantito il corretto equilibrio tra i piani sonori di buca e palcoscenico, l’accompagnamento è poco attento alle esigenze del canto; è una direzione che rinuncia a far emergere le preziosità, tanto timbriche quanto di intensità teatrale, della partitura verdiana. Purtroppo sono molteplici gli episodi che scivolano senza destare interesse, o facendo risaltare squilibrio nella gestione dei pesi: è un Don Carlo in bianco e nero, prosciugato delle sue tinte, appiattito e quasi preservato dal ruggito della propria intrinseca poderosa forza drammatica, non privo di imprecisioni in più di un innesto strumentale.

Il malcelato laissez faire che fa da sottofondo alla concertazione finisce purtroppo per tarpare le ali all’Orchestra del San Carlo, che pure appare in buona forma per qualità del suono e per tenuta generale. Ma le buone intenzioni e le qualità dell’Orchestra (per inciso: complimenti al primo violoncello di Pierluigi Sanarica per il meravigliosa introduzione orchestrale a “Ella giammai m’amò”) si assopiscono sullo scorrere apatico e a tratti rumoroso della direzione.

A risentire di questo lavoro poco attento e superficiale è anche il Coro, diretto con la consueta mano esperta da Fabrizio Cassi: al netto di qualche forzatura della corda sopranile, è un bel sentire, puntuale, tendenzialmente compatto, ma risulta poco amalgamato con l’orchestra nella grandiosa scena dell’Autodafé dell’atto III, gestita con eccessiva approssimazione da Henrik Nánási e penalizzato nell’espandersi del suono dall’infelice collocazione registica, incastonato dietro gli stalli di un coro ligneo cinquecentesco.

Il cast vocale è nel complesso abbastanza adeguato e omogeneo, ma appare anch’esso risentire da quella superficialità del podio.

John Relyea è un Filipo II dalla vocalità granitica, dal timbro molto scuro, dall’imponente presenza scenica; sconta però una linea di canto dai tratti eccessivamente stentorea, poco incline alla cantabilità e al legato, che finisce per restituire un Filippo monolitico, autoritario e tetragono, e non, come magistralmente scolpito da Verdi, il ritratto di un uomo tormentato, dubbioso, che riflette sulla propria vita, sul potere e sulla morte.

Piero Pretti, nel ruolo del protagonista, ha il merito - e non è poco! - di saper gestire le insidie della lunga, ardua, e ingrata, parte di Don Carlo: a fronte di duetti, terzetti, concertati dalla notevole difficoltà, Verdi gli assegna la sola aria, “Io la vidi e il suo sorriso”in apertura dell’atto I. Se il peso vocale di Pretti dà l’impressione talora di non essere sempre del tutto adeguata alla scrittura, l’intelligenza e la perizia tecnica gli consentono di superare egregiamente gli scogli più impervi. Pretti domina con sicurezza il registro acuto, ha dizione scolpita e si dimostra interprete scrupoloso delle intenzioni espressive del personaggio.

Ben centrata la cantabilità e l’eleganza che Gabriele Viviani dà a Rodrigo: a una vocalità corposa nel registro medio e acuto, Viviani unisce una linea ben calibrata, levigata che restituisce al Marchese di Posa il giusto carattere vocale e psicologico.

Al netto di qualche imprecisione da emissione eccessivamente ingolata e imperfezione nella dizione, convince Alexander Tsymbalyuk nei panni – atemporali, come si dirà – del Grande Inquisitore.

Giorgi Manoshvili è un Frate di lusso: è una delle (poche) sorprese della serata. Malgrado la brevità della parte, si apprezza la bella pasta vocale, la linea di canto scolpita ed elegante, l’incisività, seppur non sempre immacolata, della dizione, qualità che meritano di essere maggiormente evidenziate in occasione del prossimo Attila (24 e 27 aprile) al San Carlo.

Rachel Willis-Sørensen è un’Elisabetta nel complesso affidabile, ma almeno per i primi due atti appare alquanto trattenuta dal punto di vista interpretativo. Il soprano dà il suo meglio nei pianissimo, mentre il registro acuto denota qualche forzatura di troppo; la linea non è sempre adeguatamente curata ed elegante. Nel complesso, però, l'artista statunitense, debuttante al San Carlo, disegna una Elisabetta credibile e dolente.

Purtroppo convince assai poco la Principessa Eboli di Varduhi Abrahamyan, la quale manifesta difficoltà nel gestire le colorature della Canzone del velo: la vocalità di Abrahamyan paga, purtroppo, per inadeguatezza del peso vocale, in particolare nel registro grave, pulizia, dizione e organizzazione vocale un prezzo troppo alto per sostenere la scrittura della parte.

Dall’Accademia del Teatro San Carlo giunge l’altra piacevole sorpresa della serata, sebbene relativa a un ruolo secondario: Maria Knihnytska è Tebaldo dalla vocalità dal bel colore e di buon spessore, a suo agio in scena.

Molto intenso il colore vocale della Voce dal cielo di Désirée Giove, anche lei proveniente dall’Accademia del Teatro San Carlo.

Ben assortiti e affidabili i ruoli secondari del Conte di Lerma di Ivan Lualdi e dell’Araldo reale di Vasco Maria Vagnoli, entrambi artisti del coro.

Puntuali i sei Deputati fiamminghi di Sebastià Serra,  Yunho Kim, Maurizio Bove, Ignas Melnikas, Giovanni Impagliazzo, Antimo Dell’Omo, allievi ed ex allievi dell’Accademia.

Lo spettacolo, firmato da Claus Guth, è stasera ripreso da Marcelo Persch-Buscaino: se la memoria non inganna, stasera vengono fedelmente riproposte le intenzioni originarie del regista tedesco. È, come scrivemmo a suo tempo, uno spettacolo incentrato sulla personalità fragile e tormentata dell’Infante. La regia di Guth ci propone il dramma come vissuto da Carlo stesso: vengono approfondite, dal suo punto di osservazione, le dinamiche del potere, le relazioni familiari, amorose e di amicizia. Ma in Don Carlo tutti sono vittime del potere, la cui indagine, del resto, è uno dei temi del teatro di Verdi, in questo caso, a giudizio di chi scrive, condotto a vertice insuperabile.

Con l’ausilio della drammaturgia di Yvonne Gebauer, Claus Guth ci mostra il mondo delle relazioni umane di Don Carlo oppresso dal potere, una forza subdola e strisciante tra le trame dell’opera, che trova negli abiti atemporali e asettici del Grande Inquisitore l’incarnazione di quello attuale. I personaggi si muovono all’interno delle cupe e austere scenografie di Etienne Pluss, perfette nel restituire l’idea di un ambiente opprimente. Le luci di Olaf Freese, riprese da  Virginio Levrio, proiettando sul fondale le ombre giganti dei personaggi sul fondale, animano l’impianto scenografico di persone private delle loro individualità che si aggirano per la corte. Le proiezioni video di Roland Horvath ripercorrono, a mo’ di analessi, la storia dell’amicizia tra Carlo e Posa sin dalla loro infanzia e fino alla loro separazione. Molto suggestivi, nell’oscillante collocazione temporale, gli eleganti costumi di Petra Reinhardt, che contribuiscono a marcare la connotazione atemporale del dramma di potere che si consuma sulle scene.

A questa tetra rappresentazione e ostentazione di potere si contrappone però una figura anarchica e dissacrante, quella del mimo di Fabián Augusto Gómez, attore eccezionale, personaggio aggiunto da Guth e dalla drammaturga Yvonne Gebauer: è l’unica figura che irride i potenti, se ne prende gioco e sottolinea con ironia i momenti cruciali dell’opera.

In conclusione, questa ripresa di Don Carlo conferma la profondità dello scavo nel dramma e nella psicologia dei personaggi effettuato da Claus Guth: lo spettatore è portato a confrontarsi con un dramma di potere antico e attuale allo stesso tempo. Il potere personificato dal Grande Inquisitore, ad esempio, è riferibile ad altre entità dalla incerta collocazione temporale, ma non meno pervasive e oppressive. Verdi, ancora una volta, dimostra la sua perenne attualità.

Al termine, dopo la lunga maratona musicale, il pubblico tributa applausi per tutti; isolati ma ben udibili cenni di dissenso all’indirizzo di Henrik Nánási e - per una sorta di aberratio ictus in ambito teatrale! - di Marcelo Persch-Buscaino: si voleva censurare Claus Guth, ma a farne le spese è chi ha ripreso il suo lavoro.

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