L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Società allo specchio

di Luca Fialdini

Dopo ventisei anni il Turco in Italia di Rossini torna al Teatro Verdi di Pisa con una raffinata produzione, solleva però qualche perplessità la resa musicale

PISA, 10 gennaio 2025 – Nell’odierna stagione lirica del Teatro Verdi – che non brilla proprio per il coraggio – ci sono però due titoli “da vedere”, anche solo per l’infrequenza con cui vengono rappresentati: La Vestale di Spontini, quella applauditissima di Piacenza, e per l’appunto Il turco in Italia, rappresentato a Pisa una sola volta nel dicembre 1999.

Peraltro, il titolo stesso richiama a parti invertite un’altra e ben più celebrata opera rossiniana, L’italiana in Algeri, antecedente di un solo anno; tuttavia non solo non è il caso di parlare di Dioscuri, ma le due opere non potrebbero essere più diverse sia sotto il profilo musicale con l’abbandono di tutte quelle pittoresche turcherie, sia sotto il profilo drammaturgico: contrariamente a quanto avviene nel libretto di Anelli, in questo lavoro Felice Romani rende più espliciti i chiaroscuri, i dubbi e i passaggi in ombra, arrivando a toccare nel secondo atto dei momenti da autentica opera seria, un equilibrio dolce/amaro da dramma giocoso vagamente dapontiano.

Nella raffinata visione scenica di Roberto Catalano questi aspetti sono molto consapevoli. In un caos ordinato e coloratissimo si guarda senz’altro a una certa concezione mitteleuropea della scena, con un impiego importante dello spazio vuoto, l’utilizzo di un’illuminazione molto precisa e di colori saturi (e accostare questo tipo di teatro a Rossini certamente non è un à la manière de Michieletto, ma il ricordo del suo celebre Barbiere è molto vicino). Si apprezza molto la bella pulizia visiva delle scene di Guido Buganza, funzionalmente animate dalle luci di Oscar Frosio, così come i costumi volutamente sopra le righe di Ilaria Ariemme, tre fattori che generano una sospensione tanto temporale quanto spaziale e dell’ambientazione partenopea – non unica analogia con Così fan tutte – non resta nulla se non l’iconografia della caffettiera. Per il resto, siamo immersi in un mondo piccolo di piccoli borghesi le cui dinamiche vengono ben delineate sin dall’alzata di sipario: solitamente chi scrive non gradisce balletti o pantomime sulle overture, ma in questo caso tutto ha così tanta ragion d’essere da risultare addirittura lodevole. L’insoddisfazione e l’incomunicabilità della coppia Fiorilla/Geronio vengono chiarite in due battute di sinfonia con i due seduti sul divano alla luce fredda della televisione per poi essere sommersi da una straripante ferocia consumistica, un ingannevole uccellino azzurro destinato a comparire a più riprese in tutta la rappresentazione. L’idea non solo è centratissima, dato che il possesso materiale è uno dei temi centrali del libretto di Felice Romani, ma è anche condotto con grande intelligenza e un pizzico di malignità di fondo; ad esempio, felicissima l’idea di sostituire il coro di zingari con uno di corrieri che tutti contenti cantano «Nostra patria è il mondo intero,/e nel sen dell'abbondanza/l'altrui credula ignoranza/ci fa vivere e sguazzar». La contrapposizione fra microcosmo (borghese) e macrocosmo (capitalista) è resa molto bene anche visivamente, con il primo riempito di elementi esclusivamente gialli e dozzinali, mentre il secondo è blu scuro e si indossano soltanto cose griffate.

Si segnala anche come Catalano abbia saputo ben integrare coreografie estranee a Rossini ma perfettamente in linea con la propria visione della drammaturgia e curate da Marco Caudera; in queste quattro soubrette (Veronica Tundis, Martina Borroni, Valentina Squarzoni e Beatrice Botticini) hanno bombardato i protagonisti con réclame e pubblicità aggressive, lanciando merendine direttamente dall’interno del frigo, mostrando in continuazione un prodotto più attraente dell’altro e spruzzando in continuazione, persino a tempo, il nuovissimo profumo Vero Amore. Si dà anche un bel risalto all’autore in cerca di dramma, sottolineando sin dalla mise quanto Prosdocimo sia un personaggio assolutamente metafisico portandolo in scena in abito scuro, quasi una diretta analogia con lo speaker dell’Oedipus Rex di Stravinskij.

C’è un po’ più di fatica nel comparto musicale. Nella direzione di Hossein Pishkar non c’è nulla di sbagliato, non c’è nulla che non vada (eccettuando qualche sporadica oscillazione ritmica fra palco e buca, nonostante le molte indicazioni del podio), ma non decolla mai. Il carattere brillante di molte pagine non emerge con efficacia e si vorrebbe anche un po’ di fantasia nell’interpretazione di numeri che altrimenti rischierebbero di sembrare tutti uguali. È tutto corretto, è tutto accurato, ma manca Rossini. Curiosamente la parte più riuscita è forse la grande aria di Fiorilla del secondo atto, quel grande squarcio di opera seria di cui si è accennato sopra.

Bene l’Orchestra Giovanile Cherubini, a parte un paio di note estranee nei fiati nell’overture, compatta, intonatissima, assai agguerrita e che – anzi – il direttore avrebbe dovuto tarare meglio sulla generosa acustica del Verdi. Ottima prova anche da parte del comparto maschile del Coro Lirico Veneto preparato da Alberto Pelosin; non da ultimo, si segnala il bravo Riccardo Mascia nella realizzazione del continuo al fortepiano sia per il consueto eccellente sostegno alle voci sia per la capacità di individuare soluzioni eleganti nel passaggio dal numero con l’orchestra al recitativo secco.

Molto equilibrato il cast nel suo complesso, al netto delle prove individuali. Antonio Garés è un dignitoso Albazar, seppur con delle fragilità nel registro acuto; bene Francesca Cucuzza la cui Zaida si avvale di una notevole proiezione del suono e di una resa scenica efficace.

Ottimo Bruno Taddia, nonostante il suo timbro sia più chiaro di quello che richiederebbe la parte. Il baritono affronta il suo Prosdocimo con un’intelligenza e una capacità di scavo nel personaggio davvero ammirevoli: trattandosi di un ruolo che impone un grande investimento sulla recitazione, Taddia scolpisce ogni parola in modo straordinario e fraseggia con gusto impeccabile. Marco Bussi firma un Geronio dal rimarchevole equilibrio, riuscendo a essere divertente senza mai scadere nel macchiettistico (una trappola che, ahinoi, vediamo in quanti non riescano ad evitare), offrendo al contempo una linea vocale curata.

Qualche manierismo floreziano per Francisco Brito, il quale fa sfoggio di un bel timbro limpido come di una bella musicalità, tuttavia le buone intenzioni vengono messe alla prova nel registro acuto e nelle colorature rossiniane.

Uno strumento vocale importante e timbricamente brunito connota il Selim di Adolfo Corrado, senza dubbio il più solido fra i sei solisti, un tratto che ben si accompagna alla presenza scenica (anche se un po’ di pulizia in più sulle colorature non sarebbe un dispiacere).

Annunciata l’indisposizione di Giuliana Gianfaldoni nell’impervio ruolo di Fiorilla, quindi non si formulerà un effettivo giudizio; non di meno, riportiamo che l’intera recita è stata priva di qualsiasi imprecisione e che anche in questo caso non ci siano appunti né sul fraseggio né tantomeno sull’intonazione. L’unica cosa che si è percepita (ed è più che comprensibile, con un ruolo tanto lungo) è una certa cautela, in particolare nel primo atto, mentre nella grande aria del secondo atto Gianfaldoni ha allentato un poco questo regime di prudenza con una felice ripercussione sull’espressività. Ottenere questo risultato in condizioni non ottimali è anche indice di un solido controllo tecnico, quindi i lunghi applausi finali sono stati più che meritati.

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