L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Nella mente di Otello

di Antonino Trotta

L’Otello di Verdi inaugura con successo la stagione 2025 del Teatro Coccia di Novara. La regia lineare di Italo Nunziata, la direzione raffinata di Christopher Franklin e un cast ben assortito regalano una serata di grande valore. A spiccare su tutti è la Desdemona di Iwona Sobotka, straordinaria per qualità vocali.

Novara, 26 gennaio 2025 – La gelosia come una gabbia che imprigiona la ragione, annientando l’uomo che non può farvi più appello. È un’idea che sa tragicamente di movente quella che dà vita all’Otello di Giuseppe Verdi andato in scena al Coccia di Novara come titolo inaugurale della stagione 2025.

Lo spettacolo, coprodotto coi teatri del circuito emiliano, reca la firma di Italo Nunziata che, nell’affrontare l’intensa drammaturgia del penultimo capolavoro verdiano, sceglie di trasformare il demone che trasfigura il Moro di Venezia – qui, in assenza di trucco esplicito, si lascia ai bellissimi costumi confezionati da Artemio Cabassi l’onere di alludere, occhieggiando all’altro importante tema presente nel libretto di Boito con opinabile delicatezza – in un anfratto angusto in cui dipanare tutta la vicenda. Ecco allora la scenografia, ideata con cura da Domenico Franchi, comporsi di pannelli mobili corrosi dalla salsedine – un prezioso rimando alle fatiche che il generale dell’Armata Veneta aveva dovuto sopportare per elevarsi a uno status nonostante la zavorra dalla pelle – e poca attrezzeria per creare un ambiente essenziale e soffocante dove le emozioni si amplificano e il dramma si consuma con implacabile ineluttabilità. Lo spazio scenico, ben illuminato da Ivan Pastrovicchio, diventa dunque una metafora tangibile della prigione mentale in cui Otello si dibatte, vittima delle proprie insicurezze e della spietata manipolazione di Jago. In questo non luogo sospeso, cinereo e angosciante, Nunziata anima il palcoscenico con perizia e rigore, gestendo con precisione i vari piani d’azione e le masse. Il risultato è una messinscena dal segno visivo elegante e ricercato, che non attenua la tensione drammatica ma anzi la esalta, mantenendo sempre l’attenzione sul nocciolo della tragedia.

Ottimo, nel golfo mistico, il lavoro di Christopher Franklin che guida i complessi dell’Orchestra Filarmonica Italiana con bacchetta salda e puntuale. Capace di esaltare i preziosismi strumentali raccolti in partitura – raffinata ed evocativa la grande scena di Desdemona nell’ultimo atto –, quasi sempre vigile nell’assicurare un buon equilibrio tra buca e palcoscenico – al Coccia, con quella buca poco profonda e un numero di elementi, in quest’occasione, maggiore del solito, non è gioco da ragazzi –, il direttore statunitense si dimostra garante di una concertazione che, con dinamiche e agogiche ben calibrate, sostiene il testo e ne esalta le sfumature espressive senza mai appesantire il tono della narrazione. Il Coro del Teatro Municipale e il Coro di Voci Bianche di Piacenza, istruiti rispettivamente dai maestri Corrado Casati e Giorgio Ubaldi, fanno anche in trasferta la loro ottima figura.

Note positivissime arrivano anche dal cast, dove s’impone innanzitutto la Desdemona di Iwona Sobotka. Con voce ricca e ben timbrata su tutta la gamma, ovunque emessa con contezza di stile e tecnica, sia essa declinata in sciabolate incendiarie o lamine di suono dall’evanescente pienezza, il soprano polacco, pressoché sconosciuto nel Bel Paese, veste i panni dell’eroina verdiana con una dignità fiera che seduce e ammalia: sposa devota, amante trepida, vittima innocente ma non ingenua, riesce a fremere in egual misura di passione e di sgomento, intarsiando nel canto il ritratto di una Desdemona di vibrante intensità emotiva. Al suo fianco, Roberto Aronica viene a capo dell’iconico ruolo di Otello con sicurezza e pathos. Al netto di qualche forzatura in acuto scaltramente camuffata in fraseggio che può essere ora eroico e baldanzoso, ora teso e inquieto, Aronica sa intraprendere la discesa negli inferi della mente con proprietà d’accento, mettendo in risalto la nevrosi che spinge l’uomo alla picchiata suicida. Certo, il timbro fibroso e l’emissione talvolta stentorea, funzionali ai passaggi di più carnale ardore, limitano la resa là dove la scrittura si fa quasi cavalleresca – si pensi al terzetto del terzo atto –, ma al tenore vanno pure riconosciuti anche i meriti di un canto sfumato che, specialmente nel finale, arricchisce la complessità del personaggio, tutto sommato pregevole e convincente. Angelo Veccia completa terzetto di protagonisti impersonando uno Jago abietto e arcigno: notevole per smalto vocale, volume e tenuta scenica, il baritono romano scava la parola – il monologo ne è lampante esempio – con rigore per ricavarne ogni stilla di veleno, pur conservando quel senso di diabolica misura che rende ancor più ferino il sinistro alfiere. Nei ruoli di fianco, spicca per la brillantezza dello strumento il Cassio di Oronzo D’Urso. Completano correttamente il cast Andrea Galli (Roderigo), Lorenzo Liberali (Montano), Nikolina Javenska (Emilia), Eugenio Maria Degiacomi (Un araldo) e Shi Zong (Lodovico).

Una sala gremita accoglie con calore tutti gli artisti, consegnando al successo quest’eccellente inaugurazione.

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