Nella bottega di Geppetto
Convince e vince la poetica messinscena con cui Daniele Menghini declina L’elisir d’amore al Teatro Regio di Torino. L’ottima concertazione di Fabrizio Maria Carminati e un cast alternativo ben assortito, in cui spicca il Belcore di Lodovico Filippo Ravizza, completano uno spettacolo decisamente felice, festeggiato con calore da una sala gremita.
Torino, 31 gennaio 2025 – Anni e anni di Elisir, tra spettacoli di repertorio che son reperti archeologici e produzioni che strizzano l’occhio alla commedia più spicciola, ci hanno forse un po' anestetizzato alla delicata bellezza che innerva e identifica questo capolavoro. Una delicatezza, in fin dei conti, che arriva tutta dal tenero Nemorino, la più animata tra le maschere che popolano la vicenda. Di donne volitive e scaltre, di ciarlatani arruffoni e arraffoni, di amanti boriosi e baldanzosi è piena la letteratura; Nemorino invece, col suo canto che sa sempre di pensiero ad alta voce, col suo animo sinceramente malinconico, col suo sprovveduto ingegno si spinge un po' oltre il villano di buon cuore, custodendo nella sua definizione il segreto del mezzo carattere con cui pure viene inquadrata l’opera di Donizetti.
Appare dunque come una strada sacrosanta, oltre che vincente, quella intrapresa da Daniele Menghini nel firmare la regia di un nuovo Elisir d’amore, coprodotto col Teatro Regio di Parma [leggi la recensione] e ora in scena tra i velluti rossi di Piazza Castello. Coadiuvato da Davide Signorini alle scenografie e Nika Campisi ai costumi, Menghini firma una messinscena, senza dubbio originale, che nell’indagare le peculiarità del protagonista si abbandona quasi a un’allucinazione, forse, conoscendo Nemorino, a un sogno ad occhi aperti, materializzato sul palco con toni e sfumature decisamente fiabesche. L’idea dell’allestimento è presto detta. Lui, riscopertosi abile artigiano e complice, magari, un sorso di birretta in più – «Elisir di tal bontà, benedetto chi ti fa!» –, s’immerge appieno in un mondo abitato dalle marionette – i costumi, per inciso, son magnifici – che è egli stesso a creare. Umile persino in quella dimensione di cui è demiurgo, da burattinaio passa, in men di un atto, a esser burattino, come avvinto da una sorte che ancor non gli arride. Basta però poco perché la situazione si ribalti. Un gesto concreto, una presa di coscienza, una firma su un contratto strappata dalla disperazione ed ecco allora i due mondi, quello reale e quello fantastico, lentamente mescolarsi fino allo scioglimento totale del secondo: mano nella mano, i giovani amanti fuggono via per la platea, riaffacciandosi alla vita. Chi fatica a decifrare, in relazione alla drammaturgia schietta del testo, tutte le citazioni raccolte, le soluzioni offerte o le immagini evocate, non si crucci più di tanto. Menghini, con abilissimo mestiere, lavora, e lavora molto bene – lo spettacolo è montato a regola d’arte, senza forzature invadenti né banalità da quattro soldi –, per rinfrancare la propria visione, per nutrire la poetica del proprio progetto. E quest’ultima, elegantissima nel linguaggio e virtuosissima nella tecnica, suona quanto mai fedele alla natura spensierata e sentimentale dell’opera, al punto tale da rendere trascurabile qualche licenza.
Piacevolissimo è anche il versante musicale, a cominciare dall’ottimo lavoro in buca approntato da Fabrizio Maria Carminati alla guida dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino, in gran spolvero. Dosando con gusto i registri, giocando sapientemente con agogiche e dinamiche, e servendo anche il palcoscenico nel migliore dei modi – piacciono i tempi accomodanti staccati per far risaltare la magnificenza del Coro –, Carminati fa vibrare, col fantasioso e raffinato sostegno al fortepiano del maestro Paolo Grosa, la sublime partitura donizettiana nella stessa dimensione onirica in cui il regista immagina la vicenda.
La seconda locandina è, nel complesso, ben assortita. Su tutti s’impone Lodovico Filippo Ravizza che, con voce non enorme ma educatissima, rotonda e perfettamente emessa, conquista fin dalle prime battute. Piace l’omogeneità del caldo timbro sfoggiato in tutta la tessitura, la solidità delle puntature saettate con contezza tecnica, il canto di agilità gestito con naturale disinvoltura, la genuinità dell’accento scolpito in un fraseggio che non spreca una parola. Il suo Belcore, risoluto e mai tronfio, è un autentico rubacuori: irresistibile. Valerio Borgioni lo si conosceva già dalla Butterfly al Coccia di appena un anno fa. In quell’occasione, pur lodandone le qualità dello strumento, si riscontrava un’imprecisa aderenza al personaggio per quell’aria e per quei modi da bravo ragazzo che caratterizzano l’attore e il vocalista. Non ci sbagliavamo e di fatto Nemorino è, per lui, terreno d’elezione. Lo è in virtù di una vocalità che, luminosa e sciabolante in acuto, sa ripiegarsi in morbide sfumature per dar sfogo ai teneri sospiri del giovane innamorato, lo è in virtù di un fraseggio che sa cogliere, con gentilezza d’espressione e sensibilità musicale, le sfaccettature più intime di una figura eburnea. Certo, qui e là vanno limate ancora minime angolosità, ma il materiale su cui lavorare è di pregio e l’esperienza sul campo gioverà alla maturazione di un artista già interessante. Enkeleda Kamani veste con grazia e spigliatezza i panni di Adina: un po' duretta nelle vette del pentagramma, sa sciogliere il cuore della capricciosa fittaiuola con filature di pregevole fattura. Simone Alberghini, Dulcamara, si conferma ora professionista di certificata dimestichezza pur mostrando il fianco là dove la scrittura impone il canto in punta di fioretto. Ottima, infine, la Giannetta di Yulia Tkachenko, chiamata a sostituire l’indisposta Albina Tonkikh.
Entusiasmo alle stelle e teatro tutto esaurito per uno spettacolo che vale la pena vedere. Lo scrivente, accreditato per la recita del 31, è corso al Regio il giorno dopo, ingolosito anche da certi nomi nella prima compagnia che verrà recensita dal collega Alberto Ponti – spoiler: Davide Luciano è una bomba –. Fidati e affrettatevi.
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