L’Ape musicale

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Jakob Beer, questo sconosciuto

di Roberta Pedrotti

Il 2 maggio 2014 sono trascorsi centocinquant'anni dalla morte di Giacomo Meyerbeer, ma la ricorrenza sembra essere passata pressoché sotto silenzio per un autore che, al di là dell'oggettiva difficoltà della messa in scena delle sue opere, è noto soprattutto attraverso luoghi comuni e giudizi non proprio lusinghieri. Eppure fu una delle figure chiave dell'Ottocento musicale, oltre che un antesignano dell'unità europea, con la sua lucida sintesi cosmopolita.

Non ci sono scuse, le opere di Meyerbeer sono difficilissime da mettere in scena, anche fuor di crisi una vera impresa: danze, festini, tornei, battaglie, naufragi e tempeste in alto mare, esplosioni, complessità strumentale, locandine esigentissime per numero e qualità di cantanti, partiture di una certa lunghezza.

È, dunque, comprensibile che l'esperienza diretta non sia, per forza di cose, delle più frequenti e agevoli; il problema si pone quando si sottovaluta la conoscenza di Meyerbeer, compositore sintetizzabile in un paio di formule, che non varrebbe la pena d'approfondire troppo. Il primo pregiudizio, assai tranchant, lo definirebbe musicista degli “effetti senza causa” e risale direttamente a Wagner. Il quale era un genio, non si discute, ma anche una persona non proprio distinta per modestia, garbo e cordialità, soprattutto nei confronti di colleghi e concorrenti. Di ventidue anni più anziano, Meyerbeer (1791-1864) non poteva considerarsi un diretto rivale, ma era un bersaglio perfetto come emblema di un sistema passato che il giovane Richard, talentoso quanto irrequieto, anarchico e (diciamolo) animato da una certa qual ipertrofica autostima, si proponeva di rivoluzionare. La sua inquietudine di figlio forse illegittimo di origini forse ebraiche, oltre alla passione smodata per l'accumulare debiti senza onorarli risolta in un'aristocratica, radicale antipatia per banchieri e affaristi di professioni, si sposavano, poi, a meraviglia con l'identità di Meyerbeer, che poteva catalizzare tutto il rancore wagneriano e farlo oggetto, nominato solo nella riedizione post mortem del 1869, di quell'imbarazzante pamphlet dall'eloquente titolo Il giudaismo in musica (1850). Tanto livore ha radici indubbiamente assai prosaiche nell'invidia per i riconoscimenti artistici ed economici, oltre che nel disappunto per dei prestiti negati, ma è certo difficile pensare che, dopo un'iniziale vicinanza e, perfino, protezione del più celebre e anziano verso l'emergente connazionale, Wagner non sentisse la necessità di rinnegare un modello, di compiere un simbolico parricidio intellettuale, quasi al pari di quel che farà poi, nei suoi confronti, il giovane Nietzsche.

Una figura tanto ingombrante nella formazione wagneriana può essere liquidata come uno sfavillante e accattivante operista commerciale di successo?

Una questione personale che sintetizza un movimento generale più ampio, se si pensa al peso sia teorico sia pratico, fra filosofi, musicologi e direttori d'orchestra, della Germania nel mondo musicale e l'effetto che doveva fare al loro orgoglio nazionale il trionfo parigino di un compositore ebreo tedesco che assume un nome italiano e si fa creatore e portabandiera dell'opera nazionale francese, ovvero degli storici avversari del conflitto franco-prussiano e delle due guerre mondiali.

Ecco il punto, anzi un punto della grandezza e della modernità di Meyerbeer: nel secolo delle nazioni, in cui l'Italia e la Germania assumono fisionomia unitaria e si consolidano in parallelo le identità internazionali di classe e quelle di masse e borghesie nazionali e nazionalistiche, il Nostro è felicemente cosmopolita, come e più dei colleghi che si muovevano fra i principati dell'Europa rinascimentale e barocca. Di famiglia berlinese colta quanto ricca, con una madre raffinata intellettuale e il padre industriale facoltoso, Jakob cresce in un clima particolarmente stimolante. Il suo cognome è Beer, ma quando il nonno materno Jakob Liebmann Meyer Wulf muore senza eredi maschi, ne diviene erede universale con il piccolo sacrificio dell'estensione del cognome in ossequio agli ultimi voleri dell'avo.


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