L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Trasformazioni

 di Antonino Trotta

 

Sergey Galaktionov guida l’Orchestra del Teatro Regio di Torino in un itinerario cameristico che va da Mendelssohn a Bettinelli.

Torino, 5 Aprile 2018 – Continua al Teatro Regio di Torino la serie di concerti dedicati a Schubert e Mahler. Nell’appuntamento che vede Sergey Galaktionov come protagonista, pagine di Bettinelli, Mendelssohn e Schubert tracciano un itinerario concertistico che sembra essere incentrato sul potere trasformativo della musica. Mendelssohn elabora spunti precedenti a fortificare quello che sarà poi uno stile inconfondibile. Le oasi di mistero e di sonorità notturne sono in continua ebollizione nella pagine di Bettinelli e Mahler trasformerà un meraviglioso quartetto di Schubert in un capolavoro sinfonico. Dinnanzi a queste illuminazioni, la trasformazione legittima l’aura di mistero che cinge la nascita di queste gemme musicali.

Sergey Galaktionov è un ottimo violinista e un raffinato maestro concertatore che della sua parte trova un’Orchestra complice nell’errante itinerario cameristico. L’affiatamento tra direttore e orchestra – di cui Galaktionov è primo violino stabile dal 2003 – è tale da ridurre il gesto a uno sguardo, l’attacco a un cenno, la scansione di una frase a un respiro, arricchendo la serata di una rassicurante aura famigliare. Questo variegato unisono di intenti si riflette subito nelle Due Invenzioni per orchestra d’archi di Bruno Bettinelli. Nella prima invenzione (Calmo) Galaktionov ricerca effetti di dolente drammaticità spingendo costantemente l’orchestra verso un criptico vibrato. Quando la sostanza si cela nell’illusorietà timbrica la simbiosi con il comparto strumentale agevola un’esecuzione introspettiva in cui l’impasto sonoro crea un’atmosfera di vibrante meditazione. Il direttore tesa le lunghe frasi e polarizza le dinamiche nell’intorno di un’asimmetrica arcata che lentamente esplode verso la fine e si dissolve afona nelle ultime rarefatte battute. Non manca il fuoco nella seconda invenzione (Allegro energico e ritmato), intrisa di trascinati aritmie dove il repentino susseguirsi di incidentali capitombola per l’intero movimento senza convergere in un periodo assertivo assertivo (mi richiama alla memoria il finale della sonata no.2 di Chopin che, come questa invenzione, trova nitore solamente negli accordi conclusivi). Merito del direttore è quello di permeare il serrato dialogo musicale con una vena di accidiosa ironia a mezzo di pause e distensioni ritmiche che trattengono istantaneamente il flusso melodico ed elargiscono all’opera un carattere più malizioso.

Alla malleabilità dell’ouverture si contrappone il geometrismo sinfonico del concerto in re minore per violino e orchestra d’archi di Felix Mendelssohn. Galaktionov, ora solista oltre che direttore, affronta le pagine con grande equilibrio nella concertazione che eredita spunti vivaldiani e mozartiani. Predilige tempi non estremamente spinti e investe soprattutto sull’espressività delle frasi cantabili che inequivocabilmente recano la firma dell’autore. Non sempre il fraseggio nelle acrobazie violinistiche del primo movimento è limpido (questo concerto accoglie in grembo il seme del ben più noto concerto in mi minore), ma il nitore della romanza centrale trasforma il secondo movimento (Andante) in un’onirica visione dove il mellifluo canto del violino (Galaktionov suona un Giovanni Battista Guadagnini del 1772) cola sul vaporoso manto orchestrale. Canto che poi si attorciglia nei saltellanti ritmi della la tarantella finale (Allegro). Punto di debolezza dell’esecuzione complessiva è, a mio avviso, il suono pastoso dell’orchestra (a cui manca un po’ di “punta”) che poco confà a un concerto dall’aria così baroccheggiante.

Se con Mendelssohn la pastosità dell’orchestra pone un freno all’impeccabilità della resa, nella trascrizione di Mahler del quartetto per archi no.14 in re minore “La morte della fanciulla” di Franz Schubert circoscrive il punto di partenza per un viaggio attraverso le trasformazioni della musica romantica. Nell’interpretazione del quartetto in versione sinfonica Galaktionov compie un lavoro eccellente. Finalmente l’orchestra è scatenata in tutta la sua invasiva potenza, le dinamiche sono sciorinate con generosità, la direzione è vivida e pulsante. Il secondo movimento è sublime, di una bellezza che tiene col fiato sospeso. Tutto è soppesato con raffinatezza, la trama orchestrale è letta con predilezione per i dettagli sonori e ritmici. Le variazioni fluiscono spedite in un continuum liquido dove dolcezza e tragicità si inseguono e cedono il posto. Nebbia e luce, morte e vita si compenetrano in questo clima che riassume l’evolvere della vita.

Nell’entusiasmo generale del pubblico al termine del concerto, Galaktionov ritaglia ancora un lembo di intima commozione un bis, l’intermezzo dalla terza sonata per violino e pianoforte di Schumann orchestrato da Alessio Murgia (primo violino del Teatro Regio), a un caro amico purtroppo da poco scomparso. Un tributo per la metamorfosi finale che nella musica trova la celebrazione ideale perché, solo nella musica, tutto si crea, niente si distrugge e tutto si trasforma.


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