L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Della bella morte

di  Irina Sorokina

La rassegna autunnale del Filarmonico di Verona si chiude con un'emozionante produzione di Madama Butterfly, che può contare su un cast ottimamente assortito a partire dalla protagonista ideale di Yasko Sato, sull'intelligente e profondo allestimento di Andrea Cigni, sulla direzione accurata di Francesco Ommassini.

Verona, 15 dicembre 2019 - Finisce in Giappone una rassegna autunnale al Teatro Filarmonico di Verona chiamata “Viaggio in Italia” che ha riscosso un successo pienamente meritato. In questo viaggio nel tempo e gli stili che dopo averci fatto emergere nel maturo Settecento e il primo Ottocento, sempre in Italia, ci ha trasferiti alla città portuale di Nagasaki, appena un secolo e qualcosa lontano dai nostri tempi. Ecco a voi Madama Butterfly, uno dei più amati titoli pucciniani, perennemente presente in Arena, ma assente dal palcoscenico del teatro Filarmonico da ben ventotto anni.

La nuova Butterfly è coprodotta dall’Arena di Verona e lo Hrvatsko Narodno Kazalište (Teatro Nazionale Croato di Zagabria). Già nel 2012, quando mise in scena Madama Butterfly con protagonista la compianta Daniela Dessì, il regista Andrea Cigni approfondì le sue conoscenze delle fonti che ispirarono Puccini, riflettè sul significato di gheisha, ma, soprattutto, si interessò al concetto di Ikigai (il motivo, la passione per cui ci svegliamo al mattino). Applicato alla storia della piccola geisha, significa che Butterfly decide di cambiare la sua vita e dedicarla alla passione amorosa per il tenente americano. Nota Cigni che la passione, se non controllata, può portare al disfacimento della propria persona ed è questo che accade a Butterfly.

Questa visione interessante e profonda, realizzata attraverso un profondo lavoro compiuto dal regista sulla recitazione e movimenti scenici di ogni interprete, porta alla creazione di uno spettacolo molto bello anche dal punto di vista visivo, che affascina soprattutto per il suo aspetto essenziale e asciutto, in assenza quasi completa dei ben noti e venuti a noia attributi giapponesi. Le scene eleganti di Dario Gessati rappresentano un bosco di betulle e fanno passare per la testa un vago ricordo di Evgenij Onegin di Čajkovskij; i dritti tronchi bianchi sembrano scesi dal cielo e emanano una luce dolce in presenza dello sfondo nero. La faccenda della „tenue farfalla“ è ambientata in un bosco; là vengono celebrate le nozze e là è situata la casetta comprata per novecentonovantanove anni, una creazione davvero effimera, di una stanza sola. In questa „scatoletta“ vivrà la povera Butterfly, là alleverà il suo figlioletto in una quasi totale solitudine: lei, lui e Suzuki. Nella cultura giapponese il contatto con la natura e la sua presenza appaiono come un „contenitore“ di vita intima e di complicati percorsi psicologici. La vita in tre in un bosco di betulle simboleggia il doloroso cammino della protagonista con un perenne aumento della solitudine che si conclude con la morte.

Oltre alle scene, lo spettacolo affascina per il lavoro cesellato sui colori, dal caldo vitale al freddo mortale. Le nozze con l'ufficiale della marina americana sono segnate dall’uso di tonalità calde, giallo e arancione, mentre nei due atti successivi prevalgono bianco, grigio e nero. Sono magnifici nella loro semplicità e gran gusto i costumi di Valeria Donata Bettella che, in perfetta sintonia con lo spirito dell’allestimento, evitano i tradizionali kimono e accessori vari, e suggestive e misteriose le luci di Paolo Mazzon.

La Butterfly veronese presenta un cast ammirevole all’interno del quale ci sono delle vere, seppur relative, scoperte. Accanto al soprano giapponese Yasko Sato che si è già fatta un nome grazie all’interpretazione del ruolo della piccola gheisha, il tenore ucraino Valentin Ditiuk nel ruolo di F. B. Pinkerton in possesso di una voce davvero bellissima, il bravissimo Mario Cassi in quello del console Sharpless e Manuela Custer in quello di Suzuki, di cui propone un’interpretazione tutta sua.

A Ditiuk la natura ha fatto un vero dono, la voce chiara, morbida e lucente; sottolineiamo che questa lucentezza è particolare. La voce vola senza rivelare una minima fatica nell’emissione e negli acuti, vanta uno squillo incantevole e legato perfetto, ma queste caratteristiche cosiddette “fisiche” vengono completate da una spiccata musicalità, fraseggio elaboratissimo e accento variegato. Non ci si annoia mai nell’ascoltare questa voce, così dolce e ammaliante. Canta con abbandono, Valentin Ditiuk, trasmette desiderio e passione in un modo così convincente che si dimentica quasi che si tratta dell’”amore” di una notte. Emana una certa simpatia, sa recitare bene e disegna un personaggio credibile e ricco di sfumature psicologiche; peccato per il fisico, troppo voluminoso per un uomo giovane. La mancanza del physique du rôle è l’unica cosa che gli si possa rimproverare.

Il tenore ucraino è affiancato dal superlativo baritono Mario Cassi nel ruolo del console Sharpless; i due cantanti sembrano trovare una perfetta sintonia, disegnano due personaggi non certo “cattivi”, ma uomini ordinari e codardi. Cassi sorprende sempre, o, meglio dire, è sempre fedele a se stesso: è un attore convincente, la voce è sempre bella e pastosa, il fraseggio raffinato in conformità a una comprensione profonda della parola cantata.

Si nota decisamente una grande Manuela Custer nel ruolo di Suzuki, non “una serva amorosa”, ma una protettrice fedele della quindicenne “farfalla” che decise di cambiare la sua vita di gheisha sposando un americano. Percepisce subito l’inganno e la tragica fine di Cio-Cio-San; già nel primo atto affronta a modo suo Pinkerton, si ferma di fronte a lui, lo trafigge con uno sguardo severo. È priva di ogni aspetto etnico e folcloristico, la Suzuki della Custer; non sfoggia né parrucca né abito tradizionale, la sua chioma è grigia dal taglio corto e i suoi abiti sono quasi maschili. Rivela voce potente e canta con un’estrema espressività.

Davvero perfetti tutti gli interpreti dei ruoli secondari, spesso ingiustamente definiti tali: Marcello Nardis, un insistente ed insopportabile Goro, Nicolò Rigano, un dignitoso principe Yamadori (appare anche nel ruolo del commissario imperiale), Cristian Saitta, uno spaventoso zio Bonzo. Non passa inosservata Lorrie Garcia nel minuscolo, ma importante ruolo di Kate, la moglie americana di Pinkerton. Completano il cast Maurizio Pantò (l’ufficiale del registro), Sonia Bianchetti (la madre di Cio-Cio-San) e Emanuela Schenale (la cugina di Cio-Cio-San).

Abbiamo lasciato per ultima l’interprete del ruolo del titolo, la cantante giapponese Yasko Sato che non necessita le presentazioni perché vista ed ascoltata nei panni della “tenue farfalla” dal pubblico di Parma e Firenze. È ovvio che il personaggio le appartiene proprio, non solo perché è giapponese e penetra nel soggetto, simboli e dettagli della “tragedia giapponese” pucciniana con facilità. Temiamo che questo la potrebbe relegare per sempre al ruolo di Butterfly, limitando le sue apparizioni in repertori diversi. Ma è vero che raramente si vede una cantante così incredibilmente adatta al personaggio, e i tratti etnici c’entrano poco.

La Sato possiede una voce piena di soprano lirico senza un colore individuale del timbro, ma compensa questa caratteristica con qualcosa che possiamo chiamare una sensibilità acuta che provoca una vibrazione in sala. È una vera e grande attrice capace di creare un personaggio in tutte le ricchissime sfumature e tracciare il suo percorso psicologico nei minimi dettagli, basta ricordare la spinta in testa che dà alla moglie di Pinkerton per liberarsi della sua presenza. Rende credibile ogni piccola frase e le dona una grande forza comunicativa. La voce risulta un po’ fragile ed opaca in “Quanto cielo! Quanto mar!” per acquistare la sicurezza e lucentezza nel duetto con l'amato. La sua interpretazione raggiunge l’apice nei due grandi assoli, di cui “Un bel dì vedremo”, cantato con trasporto e delle sfumature sottilissime, provoca una catarsi in sala, ma non è da meno anche in “Tu, tu piccolo iddio!” dove il suo declamato è segnato da una vera tragicità.

Sul podio, Francesco Omassini, oltre ai tempi sempre giusti, offre una lettura appassionata e scrupolosa, ricca di colori e dettagli; nel primo atto il suono dell’orchestra risulta un tantino voluminoso rendendo esili ed opache le voci, ma trova l’equilibrio negli atti successivi. Ottimo il coro areniano preparato da Vito Lombardi, insuperabile nella celebre pagina a bocca chiusa.

Prima ancora che abbia iniziato lo spettacolo, uno spettatore nella fila dietro osserva: “Che opera è se non muore nessuno”?. Come dargli torto? Puccini nelle sue opere le eroine le vuole morte, di sete e fatica come Manon, di tisi, come Mimì, suicide come Tosca e Cio- Cio-San. Ma nello spettacolo veronese quelli che aspettavano “una bella morte” possono ritenersi pienamente soddisfatti e fortunati, se così si può dire. Più bella di così come l’ha ideata il regista e l’ha eseguito la formidabile Yasko Sato, non esiste proprio: le luci taglienti sottolineano la figura di una giovane donna in veste candida di nozze che mette il color rosso acceso sulle guance prima di farla finita col pugnale usato da suo padre morto suicida pure lui. Vera commozione in sala, come non succede ogni giorno. Grandi applausi per tutto il cast e accoglienza cordiale per la team di creatori dello spettacolo. Una davvero gloriosa conclusione della rassegna autunnale veronese che impone alla stagione lirica che partirà in gennaio, non essere da meno.

foto Ennevi


 

 

 
 
 

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