L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Allegoria e sepolcro

di Francesco Lora

Il Ravenna Festival e il Teatro Comunale di Ferrara hanno apparecchiato a breve distanza i due oratorii italiani di Händel: Il trionfo del Tempo e del Disinganno, con Ottavio Dantone e l’Accademia Bizantina,e La Resurrezione, con Alessandro Quarta e l’Accademia dello Spirito Santo.

RAVENNA-FERRARA, 24 giugno e 1° luglio 2020 – Due sono gli oratorii italiani che Georg Friedrich Händel compose, poco più che ventenne, durante il proprio soggiorno a Roma. Essi sgomentano per bulimica quantità e geniale qualità di idee e risorse, dall’autore lì presentate in blocco e poi riproposte per quasi mezzo secolo. Il primo oratorio è La Bellezza ravveduta nel trionfo del Tempo e del Disinganno, allegoria del 1707 ove traspare il percorso psicologico di conversione della Maddalena. Il secondo è l’Oratorio per la risurrezione di nostro signor Giesù Cristo, azione del 1708 ove si ripercorrono i fatti dal sabato santo alla domenica della nuova pasqua. Abbreviati e banalizzati nei loro titoli – Il trionfo del Tempo e del Disinganno e La Resurrezione: così nelle partiture originali, sì, ma come sbrigativa etichetta – li si ascolta oggi con qualche regolarità ma mai abbastanza. Appetitosa è dunque stata l’occasione di goderli entrambi a pochi giorni e pochi chilometri di distanza, nel giusto ordine cronologico, il 24 giugno nella Rocca Brancaleone, tra i primi eventi del Ravenna Festival, e dal 1° al 3 luglio al Teatro Comunale di Ferrara, come fedele recupero dello spettacolo epidemicamente andato a monte il 21 aprile scorso.

A Ravenna, nel Trionfo del Tempo e del Disinganno,giocavano in casa gli strumentisti dell’Accademia Bizantina e il loro concertatore Ottavio Dantone. Orchestra in forbito spolvero tecnico ma anche ridotta a organico minimo: sei violini in tutto – per darne la misura – a dispetto dello spazio aperto e di un’amplificazione artificiale più urtante qui che nei concerti sinfonici di Riccardo Muti e della Cherubini. Lettura, quella di Dantone, proporzionalmente asciutta, tagliente, metallica, incisiva, sempre oggettivata e mai voluttuosa, insomma più luterana alla maniera di Lipsia che controriformista alla maniera di Roma. Spiacciono i tagli a questa partitura di perfette proporzioni drammaturgiche; spiacciono non solo poiché praticarli è di per sé ammissione di mancata adeguatezza, ma anche poiché le forbici paiono lavorare a casaccio: amputare arie come «Venga il tempo e con l’ali funeste» o «Più non cura – valle oscura» equivale a omettere «Caro nome» da Rigoletto o «D’amor sull’ali rosee» dal Trovatore; stralciare «Ricco pino – nel cammino» ma preservare il successivo recitativo accompagnato, a sua volta, ha la stessa logica di abbattere un salone per mantenere invece l’attiguo corridoio.

Un vecchio equivoco: la sarabanda «Lascia la spina», anticipazione di «Lascia ch’io pianga» in Rinaldo, è ancora una volta staccata a lento passo, quando invece dovrebbe incedere smaliziata, vivace e lusinghiera. Di vario merito la compagnia di canto. Monica Piccinini, come Bellezza, reca una linea di canto tornitissima e un’elegante muta di variazioni, anteponendo alla partecipazione emotiva – in una parte commovente – un astratto stilismo. Emmanuelle de Negri, come Piacere, è invece campionessa di smalto e temperamento, ovvero la più abile nel modellare un personaggio e insieme nel domarne l’irta scrittura vocale. Delphine Galou, come Disinganno, maschera con fascino francese un’estensione stiracchiata nel registro grave e la spigolosità nella pronuncia italiana (con ricaduta sul naturale flusso del fraseggio). Anicio Zorzi Giustiniani, come Tempo, ribadisce infine una solida impostazione degna anche dell’Ottocento romantico, e che nel dimesso panorama tenorile händeliano si impone per efficacia di accento, prosodia, eloquio. Meritata menzione per Alessandro Tampieri, trascinatore dell’intera sezione degli archi e sopraffino conversatore, come violino solo, nell’estasi dell’aria conclusiva, «Tu del Ciel ministro eletto».

foto Zani Casadio

A Ferrara, per La Resurrezione, padroni di casa erano invece l’orchestra e il coro – quest’ultimo simpaticamente formato da amateurs – che vanno sotto il nome di Accademia dello Spirito Santo. Loro ospite era il concertatore Alessandro Quarta: sottile conoscitore della letteratura musicale romana e pronto a una direzione sospirosa, eloquente, grandiosa; forte di un organico strumentale assai scalpitante e folto (con, al chiuso, quasi il doppio dei violini visti alla Rocca Brancaleone); superbo realizzatore della dialettica tra concertino e concerto grosso (finalmente, all’attacco del tutti i capelli hanno di che rizzarsi). Dove Dantone sembra praticare il disegno alla toscana, insomma, Quarta esercita piuttosto l’arte veneta del colore. Peccato che anche la sua lettura sia afflitta da qualche taglio alla partitura, apportato tuttavia con maggiore accortezza; e peccato che nei due cori di fine parte tutte le note siano cantate dai ripieni (la massa corale, spesso disattesa), anziché delegare le frasi d’avvio a voci sole (come prescrive il libretto originale e come la partitura sottintende). Quanto all’aria «Se per colpa di donna infelice», eccola ritrovare l’implicito passo scorrevole, in barba a chi da generazioni ne fa uno strascinato lamento.

Pubblico distanziato nei palchi, orchestra nella platea sgombrata, coro schierato lungo il boccascena, cantanti alloggiati in postazioni: nel teatro riorganizzato per emergenza sanitaria, la regista Chiara Tarabotti tenta anche una mise en espace, giocando suggestivamente tra proiezioni di disegni architettonici e carte archivistiche, o azzardando proposte esegetiche e soluzioni gestuali smentite dal circostante barocco musicale. La compagnia di canto ferrarese risulta assunta su un mercato più economico rispetto a quella ravennate, ma più di essa vanta coesione d’intenti nonché disinibito, idiomatico possesso sia del testo drammatico sia del dettato händeliano. Ciò si ascolta nell’Angelo di Sonia Tedla, infantile, guizzante e pungente alla disinvolta maniera di un putto tenero e scherzoso. Ciò si ascolta nella Maria Maddalena sostenuta con immacolato lirismo da Carlotta Colombo. Ciò si ascolta nella Maria Cleofe di Chiara Brunello, in carnoso equilibrio tra bronzeo eroismo e calore materno. Ciò si ascolta nel San Giovanni di Luca Cervoni, dall’emissione libera, sfumata e natutale. Ciò si ascolta nel Lucifero di Mauro Borgioni, il solito capolavoro di arte retorica nel miniare la parola o eccitare il carattere. E il colpo è fatto.

foto Marco Caselli Nirmal


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