L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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L’opera in breve

di Claudio Toscani

dal programma di sala del Teatro alla Scala

Fu nei primi mesi del 1832 che l’impresario Alessandro Lanari, avendo ottenuto in appalto il Teatro della Canobbiana di Milano, chiese a Donizetti di comporre un’opera comica per la stagione in corso. E fu ancora Lanari a suggerire, dati i tempi stretti, di ricavare il soggetto da un libretto francese già pronto, scritto da Eugène Scribe per un opéra-comique di Daniel Auber: si trattava di Le philtre, che era stato da poco rappresentato a Parigi con successo, e che sarebbe rimasto poi in repertorio nella capitale francese fino al 1862. Il librettista Felice Romani, ingaggiato per l’occasione, fece opera di traduzione quasi letterale; malgrado ciò, seppe approntare un libretto di ottima fattura, oltrepassando di molto, nel risultato, l’originale. Donizetti compose l’opera velocemente, secondo le sue abitudini: la sera del 12 maggio 1832 L’elisir d’amore approdò alle scene della Canobbiana, con esito eccellente.

Il successo dell’opera stupì lo stesso compositore, che proprio in quegli anni seguiva altre vie. Il pirata di Bellini alla Scala nel 1827 aveva lanciato la voga dei soggetti tragici e delle passioni esasperate, dando voce all’incipiente gusto romantico che a quell’epoca, nell’Italia del Nord, si diffondeva anche tra il pubblico del teatro d’opera. Donizetti, al quale i nuovi soggetti “romantici” erano particolarmente congeniali, aveva suscitato l’entusiasmo del pubblico milanese con Anna Bolena nel 1830, e nel decennio successivo si sarebbe dedicato soprattutto all’opera seria a vocazione tragica. Il mutamento generale nel gusto e nello stile del linguaggio melodrammatico metteva in crisi il genere comico, sin quasi a causare la scomparsa di una tradizione gloriosa, che attraverso Piccinni, Paisiello, Cimarosa aveva toccato l’apice, in tempi recenti, con Rossini. Il passaggio ai drammi tragici e a fosche tinte, nei quali irrompeva con forza l’elemento passionale, richiedeva la massima coerenza nello sviluppo psicologico dei personaggi: tutto ciò era incompatibile con la sostanziale indifferenza emotiva del tradizionale teatro comico. L’opera buffa, con la stereotipia dei suoi caratteri e delle sue situazioni, parve di colpo obsoleta e antirealistica, e per questo condannata all’oblio.

Ma fu proprio L’elisir d’amore a raccogliere la sfida lanciata dall’opera seria, mostrando all’opera buffa la via del rinnovamento e sottraendola alle secche dell’inverosimiglianza. Già Romani nella preparazione del libretto aveva puntato, più che sull’arguzia e sulla civetteria della fonte francese, su personaggi umani, dotati di uno spessore sentimentale autentico. L’implorazione di Nemorino “Adina, credimi” nel finale primo, la sua romanza “Una furtiva lacrima”, l’aria di Adina “Prendi, per me sei libero” (tutte assenti nel libretto di Scribe) corrispondono a un pathos reale, non a una raffigurazione stilizzata delle emozioni. Donizetti, in questi luoghi, bilancia l’elemento comico con un sentimento di malinconia penetrante. E la risoluzione del conflitto non è affidata, come nella tradizione comica, all’inganno o a una combinazione fortuita di eventi: bensì a un fattore ben più “umano”, cioè al riconoscimento, da parte di Adina, del valore, dell’onestà e della costanza di Nemorino. Ai meccanismi tradizionali (ai quali anche Donizetti, sino a quel momento, si era attenuto: le sue opere buffe precedenti seguono il modello rossiniano) L’elisir d’amore sostituisce, grazie all’immissione dell’elemento sentimentale e all’umanizzazione dei personaggi, una personale rielaborazione dello stile comico.

Un’impostazione del genere richiede caratteri perfettamente coerenti, e tipologie melodiche che ne evidenzino i tratti personali. Se Belcore, il soldato sbruffone che si esprime sempre per metafore militaresche, e Dulcamara, il ciarlatano dalla faccia tosta che abbindola gli ingenui campagnoli, sono personaggi tradizionali del teatro comico, Adina e Nemorino mostrano tratti di ben altra modernità. Adina evolve dall’indifferenza per Nemorino al dispetto nel vederlo corteggiato, cambia d’animo quando ne accerta la nobiltà di cuore e la sincerità d’affetto, approda all’amore spontaneo: è dunque personaggio complesso, lontano dalle maschere inamovibili della commedia dell’arte.

L’evoluzione dalla ragazza volubile e capricciosa alla donna innamorata trova perfetta corrispondenza nel passaggio dalle fioriture di “Chiedi all’aura lusinghiera” alla cantabilità malinconica di “Prendi, per me sei libero”. Ma anche Nemorino evolve: l’“idiota”, qual si definisce all’esordio, si lascia alle spalle la stupidità e prende coscienza di sé in virtù del suo sentimento. I segni del rinnovamento promosso dal melodramma romantico, qui, sono particolarmente evidenti: il canto spianato del tenore nel registro centrale sostituisce il canto d’agilità e le formule ornamentali rossiniane. Assenti, del pari, i sospiri tenorili stilizzati, alla maniera del Conte d’Almaviva, le cui parentesi lirico-effusive vengono a inserirsi in un gioco compiaciuto: Nemorino esprime una tenerezza autentica, una vena sentimentale schietta.

Gli accenti elegiaci, la forte carica emotiva erano atipici nella storia dell’opera buffa. L’elisir d’amore, a questo riguardo, è imparentato col genere semiserio, quello che discende dalla Nina di Paisiello e dalle pièces larmoyantes di fine Settecento: vi rimandano l’ambientazione villereccia, la vena sentimentale e altro ancora. Molte le coincidenze con La sonnambula di Bellini, che al Carcano di Milano aveva trionfato undici mesi prima: a cominciare dalla felice vena melodica, dalla quale sgorgano canti fluidi e limpidi. Entrambe costituiscono una sorta di idillio romantico, una favola pastorale attualizzata e privata di ogni stilizzazione arcadica. E come La sonnambula trascende il genere serio, L’elisir d’amore trascende quello comico.


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