L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Indice articoli

 

APPROFONDIMENTI

L’opera in breve
Giuseppe Martini
La realizzazione dell’opera commissionata a Bizet dall’Opéra-Comique fu particolarmente tormentata: perplessa dalla scabrosità del soggetto, ritenuto poco opportuno per un teatro frequentato dalla borghesia parigina, la direzione teatrale continuava a rinviarne la messinscena, tanto che nel frattempo Bizet si dedicò (ma di malavoglia) a un Don Rodrigue per l’Opéra, che l’incendio alla Salle Peletier del 28 ottobre 1873 impedì di allestire. Alla fine Carmen andò in scena il 3 marzo 1875: una delle creazioni destinate a maggior gloria di tutta la storia operistica incontrò un pessimo debutto: alla presenza di Gounod, Thomas, Delibes, Offenbach. Massenet e Lecocq, il pubblico cominciò a mostrare freddezza dal quintetto del secondo atto e lo scontento montò – per l’eccesso di recitazione cruda e per la delusione di non vedere un balletto – fino all’ultimo atto, giudicato inadatto all’Opéra-Comique, con il pubblico che abbandonava la sala tranne gli amici di Bizet. Se il mezzosoprano Célestine Galli-Marié, che interpreterà il ruolo del titolo per un quindicennio all’Opéra-Comique, e Jacques Bouhy come Escamillo ne uscirono bene, il baritono Paul Léhrie mostrò qualche problema d’intonazione e nelle parti senza orchestra per aiutarlo si ricorse a un harmonium di appoggio, suonato dietro le quinte da un allora sconosciuto Vincent D’Indy).
La partitura stessa risente tuttora di queste vicissitudini: Bizet intervenne con molti tagli durante le prove e ritoccò altri dopo la prima, e su questa versione si basa lo spartito per canto e pianoforte pubblicato subito dopo il debutto, oltretutto spesso con la traduzione del libretto in italiano, lingua internazionale della musica di quel tempo, così come veniva allestita in molti teatri in tutto il mondo. Alle difformità del testo musicale non ha posto riparo l’edizione critica di Fritz Oeser del 1964, basata solo sull’autografo senza considerare i ripensamenti di Bizet, per cui un testo definitivo di quest’opera, partitura e libretto, a tutt’oggi non esiste. Inoltre, poiché il genere opéra-comique prevedeva i dialoghi recitati, per il debutto viennese del 23 ottobre 1875 furono riscritti secondo le abitudini internazionali intonandoli a recitativi da Ernest Guiraud, amico di Bizet, e inseriti nello spartito dall’editore Choudens senza avvertenze. Ma a Vienna Carmen piacque a tutti: a Wagner, a Ciajkovskij, a Brahms. Bismarck, che Brahms stimava il miglior orecchio operistico di Germania, la vide ventisette volte. Da allora ha vissuto un cammino inarrestabile: nei primi due anni si contavano già novantatré rappresentazioni in Europa.
Non è solo la scelta di una figura femminile forte capace di disporre delle proprie passioni e di accettare il proprio destino o l’adozione di personaggi anticonvenzionali ad aver impresso a Carmen quella ventata di novità trasgressiva con cui è stata salutata dai contemporanei fra cui anche Nietzsche, che se ne dimostrò entusiasta brandendola in opposizione al mondo wagneriano di cui si sentiva disgustato. Il rifiuto delle morbidezze “alla Gounod” allora di moda, l’utilizzo della semplicità musicale come carattere fosco, la scansione scenica per tableaux visivi di forte efficacia, l’abbondanza di musica scenica e di ritmi di danza (habanera, chanson Bohème, seguidilla, marcia, canzone militare, fanfara del corteo), le armonie taglienti, il rifiuto di impasti strumentali e anzi la preferenza per timbri spesso puri in cui emergono singoli strumenti, il colore spagnolo incarnato a un mondo arcano di sangue e passioni, contribuiscono a qualsiasi rifiuto dell’analisi psicologica dei personaggi per privilegiare la sensazione di oggettività basata solo sul loro modo di agire, che appare spesso legato a doppio filo a motivazioni di natura ancestrale e ferina. E questo spiega anche perché Carmen sia tuttora una delle tre opere più eseguite al mondo.

Il libretto
Giuseppe Martini

Abituato a scegliere in prima persona i libretti, per la commissione dell’Opéra-Comique Bizet individuò il racconto Carmen di Prosper Merimée, uscito nel 1845, e lo spedì subito a Henri Meilhac e Ludovic Halévy perché ne provvedessero alla riduzione a libretto, ma per prima cosa fu costretto a resistere, invano, ai loro avvertimenti sulla necessità di modificare il contenuto del soggetto per evitare reazioni scandalizzate del pubblico. Del resto, si trattava di andare incontro alle consuetudini di un teatro, l’Opéra-Comique, legato abitualmente all’alta borghesia, di cui ospitava persino le feste di fidanzamento, e che certo non avrebbe tollerato una vicenda di amore e tradimenti in mezzo a sigaraie, zingare, contrabbandieri e spargimenti di sangue. Alla fine la spuntarono i librettisti, e anche grazie a questa tenacia Carmen ha potuto vedere la luce.
La trasposizione in termini teatrali del racconto di Merimée si presentava irta di questioni da risolvere. Meilhac e Halévy prima di tutto eliminarono l’espediente narrativo usato nella fonte, cioè la narrazione dei fatti in prima persona da parte di José allo stesso Merimée il giorno prima di essere giustiziato, e introdussero il personaggio di Micaëla per attenuare la carica immorale di cui la novella era stata accusata fissando quel punto di rettitudine rispetto al quale Carmen è eccentrica e José si rivela com’era prima di incontrare Carmen. Fu poi sviluppato il ruolo di Escamillo (che nel racconto è Lucas, un personaggio che non parla mai) per far risaltare quello di José, e aggiunti i brani che definiscono teatralmente i personaggi e le situazioni (l’“habanera” di Carmen, l’entrata di Escamillo, la “seguidilla” di Carmen e José, la “canzone del fiore”, la scena delle carte, il finale terzo, la scena in cui nel quarto atto Frasquita e Mercédès avvertono Carmen che José si nasconde nella folla). In questo modo Escamillo e Micaëla assumono la funzione di esaltare le potenzialità drammatiche di Carmen e José, intorno ai quali ruota tutta la vicenda. Inoltre, nel secondo atto sono stati inglobati vari episodi di Merimée, il duello con Zuniga nel racconto avviene in un altro momento (e lo spostamento serve a non accelerare troppo agli occhi del pubblico la degenerazione di José) e vengono depennati gli altri due delitti compiuti da José nel racconto. Lo stesso finale è spostato da una località di montagna alla Plaza de Toros, con l’invenzione della vittoria di Escamillo e dell’ultima supplica di José.
In compenso vengono fortemente stemperati la carica selvaggia ed erotica che serpeggia nel racconto, il carattere bugiardo e la cleptomania di Carmen, la personalità orgogliosa del basco José. In alcuni punti però l’intervento di Bizet è certo: sono di sua mano i versi dell’“habanera” e l’assolo di Carmen nella scena delle carte, e comunque sottopose il testo a continui ritocchi anche dopo la prima rappresentazione, il che ha creato enormi problemi agli studiosi che hanno tentato di ricostruire una prima ipotetica versione del testo. Certamente, se avesse dovuto compiere di persona la trasformazione dei dialoghi in recitativi, avrebbe fatto un lavoro diverso da quello di Guiraud: i dialoghi recitati originali erano più lunghi, contenevano molti passaggi di Merimée e offrivano una resa più efficace dell’azione, oltre ad alcune indicazioni di plausibilità scenica (per esempio il modo con cui Micaëla raggiunge il covo dei contrabbandieri). In ogni modo il libretto di Meilhac e Halévy, per quanto si possa essere allontanato dalla violenza del racconto di Merimée, risulta di una tale efficacia teatrale da poterlo considerare senza dubbio uno dei migliori della storia dell’opera.

Sinossi

ATTO PRIMO
A Siviglia verso il 1820. Sotto gli occhi di Moralès, capo dei dragoni, ragazzi e soldati aspettano l’uscita delle sigaraie dalla manifattura dei tabacchi. Ecco che dal suo paese di campagna arriva Micaëla, alla ricerca del brigadiere Don José, che non è arrivato ma - le viene riferito - non tarderà. La ragazza, quindi, si allontana. L’uscita delle sigaraie mette tutti in agitazione, tranne José, che si mostra disinteressato, innamorato com’è di Micaëla. La più attesa delle sigaraie è l’avvenente Carmen: quando esce tutti gli uomini le si fanno intorno (habanera: “L’amour est un oiseau rebelle”). Carmen nota però l’indifferenza di José: gli piace, lo punta senza parlare e gli lancia un fiore prima di ritornare nella manifattura. José ne resta colpito e nasconde il fiore sotto la giubba. Ritorna Micaëla che consegna a José una lettera della madre (“Parle-moi de ma mère”) e lo bacia castamente: in quel momento si sentono grida provenire dalla manifattura: è Carmen che si è azzuffata con una compagna, ferendola al volto. Viene arrestata da Zuniga, tenente delle guardie che ordina a José di accompagnarla in prigione. Rimasta sola con lui, Carmen lo prega di liberarlo, dando inizio alla sua opera di seduzione: gli promette amore in cambio della libertà (seguidilla: “Près des rémparts de Séville”). José, definitivamente sedotto, l’aiuta a fuggire.
ATTO SECONDO
Nella taverna di Lillas Pastia, un mese dopo, Carmen sta aspettando il ritorno di Don José, imprigionato per averla lasciata scappare. Balla con le altre amiche, Mercédès e Frasquita (chanson bohème: “Les tringles des sistres tintaient”). Acclamato dagli ammiratori, entra il torero Escamillo, che vuole brindare con gli amici (“Votre toast, je peux vous le rendre... Toréador, en garde”) e rivolge qualche frase galante a Carmen, che però è tutta concentrata su José: è sicura che, appena uscito dalla prigione, verrà a prenderla e perciò rifiuta di unirsi al colpo che stanno studiando i suoi amici contrabbandieri, Le Remendado e Le Dancaire (“Nous avons en tête une affaire”). Carmen aveva ragione: arriva finalmente José che però, appena ode la tromba suonare la ritirata, vorrebbe tornare in casema; indispettita, Carmen prima lo schernisce, poi lo invita a fuggire con lui sulle montagne. Don José cerca di far ragionare la donna ribadendole il proprio amore (“La fleur que tu m’avais jetée”). Quando arriva Zuniga, i due si azzuffano per Carmen, divisi da due contrabbandieri, e solo a quel punto José si trova costretto a scegliere la fuga unendosi a Carmen.
ATTO TERZO
Non è certo la vita in montagna la vita ideale per José, pieno di rimorsi per la promessa, fatta alla madre, di sposare Micaëla. Anche con Carmen le cose non vanno come una volta. La sigaraia interroga le carte (“Parlez encore, parlez, mes belles”) e il responso è terribile: nel suo futuro c’è la morte (“En vain pour éviter les réponses amères”). Micaëla, che si è inerpicata sulla montagna per cercare di redimere il suo uomo (“Je dis que rien ne m’épouvante”), lo spinge a scappare e a raggiungere la madre morente. Arriva Escamillo, fra lui e José scoppia una rissa scatenata da allusioni fatte da Carmen. José colpisce, Carmen riesce per un soffio a evitare che il colpo raggiunga Escamillo. Alla fine Don José segue Micaëla, che spera di strapparlo così al fascino distruttivo di Carmen.
ATTO QUARTO
In piazza di fronte all’arena di Siviglia il popolo acclama il corteo dei toreri, con Escamillo. Ora Carmen si è messa con lui. Nella folla è nascosto José, pazzo di gelosia. Frasquita avverte Carmen che l’uomo è sulle sue tracce, consigliandole di fuggire, ma Carmen non la ascolta e lo affronta: José la implora di tornare con lui, la minaccia. Ma Carmen lo respinge e, con sprezzo, getta l’anello che José le aveva donato. Accecato dall’ira, l’uomo le si avventa contro e la pugnala (“C’est toi! C’est moi!”), lasciandosi poi arrestare mentre invoca il nome di Carmen.

Note di direzione
Jordi Bernàcer

Perché nel 2022 mettiamo ancora in scena Carmen? Io credo perché come società abbiamo bisogno di sentire vive le colonne della storia della cultura, e Carmen ha una musica di altissimo livello che è necessario sentire presente fra di noi, e non solo perché è tanto conosciuta. In effetti il fatto che sia un’opera che abbiamo tutti in testa comporta anche la difficoltà principale quando la si interpreta, cioè quella di renderla viva in ogni momento. La sfida è proprio quella di non limitarsi a rifarla in modi che si sono già sentiti, ma leggerla ogni volta come se fosse la prima volta, e coinvolgere il pubblico come se fosse il pubblico di quella prima volta del 1875. Per farlo, di solito preparo un’opera tenendo come riferimento la partitura guardandola come se non lo avessi mai sentita prima, e cerco di capire insieme agli interpreti come renderla viva. È veramente l’aspetto più bello del mio mestiere.
La mia prima Carmen fu in Polonia, poi l’ho diretta a San Francisco, a Caracalla, all’Opera di Roma, in Spagna. È perciò un’opera che mi accompagna e mi affascina da anni. Certo, per uno spagnolo come me è un sapore particolare. Al tempo di Bizet la musica spagnola per i francesi aveva un carattere esotico, come quella orientale, eppure per noi spagnoli la miglior musica spagnola dell’Ottocento prima di De Falla, Granados e Albéniz ci sembra proprio quella scritta da compositori francesi. Per Carmen Bizet ha tratto spunti molto essenziali dello spirito spagnolo, prendendo in prestito dalla letteratura musicale spagnola melodie come per la habanera, che è in realtà un pezzo di Sebastián Yradier, o l’ultimo entr’acte, che è preso da una collezione di danze iberiche di Manuel García. Lo ha fatto perciò in modo non “spagnolizzante”, ma con consapevolezza e con un certo studio, funziona benissimo e per questo da spagnolo provo grande rispetto per il lavoro che ha compiuto.
Certo, Carmen è molto di più che colore locale. È un’opera ricca e complessa, e ricchi e complessi sono i suoi due personaggi principali, Carmen e Don José, che per me restano i ruoli più delicati dal punto di vista vocale e psicologico, anche se in fondo tutti i personaggi di quest’opera presentano più strati interpretativi. Mi sembra limitativo per esempio pensare che i librettisti abbiano ideato Micaëla ed Escamillo solo per far risaltare la natura di Carmen e José: in realtà sono personaggi che hanno molto da dire, basta pensare come la stessa Micaëla riveli un altro tipo di amore rispetto a quello di Carmen, ma non diverso o inferiore. Peccato solo che non abbia molte occasioni di mettersi in mostra. Del resto lo sviluppo della vicenda di quest’opera è tutta nella testa di Don José, ed è lui che la scatena e la porta all’epilogo.
Infine, per quanto sia la versione con i recitativi sia quella con i dialoghi parlati originale dell’Opéra-Comique siano entrambe valide, abbiamo optato per quella con i recitativi scritti da Guiraud, che sono musicalmente ben fatti, interessanti e aiutano la fluidità e l’organicità dello spettacolo e della resa dei cantanti. E Carmen ha bisogno di fluidità, perché Bizet l’ha pensata in modo moderno. Si guardi per esempio l’uso del coro, così dinamico, così protagonistico, così recitato, che all’epoca prese in contropiede gli stessi coristi: è un modo di pensare il palcoscenico che apre le porte al futuro. Anche per questi particolari Carmen è un’opera di cui oggi abbiamo ancora bisogno.

Note di regia per una Carmen
Silvia Paoli

Per prepararmi ad affrontare Carmen, l’opera “croce e delizia” per eccellenza (una delle più rappresentate al mondo) mi sono interrogata a fondo sia sul libretto sia sulla musica trovando poi l’illuminazione andando alle origini, rileggendo Merimée.
In questa messa in scena c’è, in particolare per me, la rivelazione di come anche questa sia l’ennesima storia di una donna vista attraverso gli occhi degli uomini: compositore, librettisti, scrittore e soprattutto Don José.
Tutta la vicenda è in realtà una soggettiva, è la confessione di un condannato a morte, e quello che viene raccontato si svolge attraverso due morti, quella avvenuta di Carmen e quella decretata di Don José.
Mi è sembrato dunque importante concentrare l’attenzione sul fatto che Carmen non esista in realtà se non attraverso le parole del suo assassino e che quindi il vero protagonista della vicenda sia Don José, colui che porta avanti l’azione. Non sappiamo nulla di Carmen che non sia in relazione a lui, Carmen non cambia, Don José si trasforma in nome di una passione (che mi guardo bene dal chiamare amore) vissuta in maniera ossessiva, malata, che lo porta a non tollerare l’idea di non poter più possedere quello che vuole; una storia che potremmo benissimo leggere anche oggi sulla cronaca di qualsiasi quotidiano.
Ho pensato quindi a una prigione e all’intera vicenda non tanto come un flashback quanto piuttosto a un ricordo ossessivo di Don José che rivive dalla sua cella l’incontro con Carmen e l’epilogo tragico della sua storia, raccontandoselo e deformandolo attraverso l’immaginazione, il proprio punto di vista. La memoria affiora dalla scatola degli oggetti personali e quindi il fiore, la foto di Micaëla, un ritaglio di giornale, della sabbia in una scarpa, che rievocano spazi e situazioni. L’immagine di Carmen e della loro storia è così assillante che Don José arriva a confondere la realtà con la memoria, tanto da deformare perfino il quotidiano, in una spirale che lo condurrà ad immedesimarsi con ciò che ricorda, a vivere continuamente fra sogno e veglia senza quasi più poterli distinguere.
Essendo gli anni Sessanta un periodo in cui per le donne comincia a realizzarsi un processo di emancipazione (ricordo che in Italia il reato di adulterio è stato abolito nel 1968 e il delitto d’onore solo nel 1981) e si mettono in discussione i pilastri del patriarcato mi sembrava giusto collocare la vicenda in quegli anni, dove il sogno di molti uomini continua ad oscillare fra la moglie devota e l’amante lasciva (la Santa e il demonio, Micaëla e Carmen) ma per “il sesso debole” si aprono prospettive di crescita e ribellione.
In tutta l’opera le donne vengono considerate alla stregua di una merce, vanno pagate, esistono in quanto sigaraie (donne facili e leggere) o per distrarre doganieri con sorrisi e parti del corpo; è un occhio maschile quello che guarda, la realtà è filtrata, è un uomo che parla.
Sono convinta che per parlare di femminicidio senza retorica sia necessario più che mai che Carmen muoia; chiamare chi l’ha uccisa non “amante tradito” o “fidanzato geloso” ma assassino e metterlo in prigione è un modo per rendere giustizia a Carmen e a tutte le donne che vogliono essere loro stesse, a prescindere dai desideri degli altri.

Quella sera al Regio
Giuseppe Martini

Il 16 settembre 1882 il gran critico musicale Filippo Filippi sentì il bisogno di correre a vedere Carmen allestita al Teatro Regio di Parma nella stagioncina autunnale destinata a raccogliere fondi per il monumento di Giuseppe Garibaldi, e ne avrebbe fatta una recensione sul «Teatro illustrato», il periodico che da meno di due anni Edoardo Sonzogno aveva fondato e armeggiato per dare seria battaglia editoriale al monopolio di Ricordi. A dirla tutta, Sonzogno aveva anche acquistato i diritti di Carmen per l’Italia: per quanto Filippi nell’articolo uscito nel numero di ottobre dichiari subito tutta la propria passione per quest’opera che giudica una delle più «simpatiche, geniali ed originali dell’arte moderna», e per quanto la sua vocazione all’avanguardismo lo esponesse a un inevitabile entusiasmo, c’erano dunque ottimi motivi per sottomettersi a «qualunque disagio» per seguire questo spettacolo – anche se non è chiaro quale mai fosse il disagio di arrivare nientemeno che a Parma partendo da Milano, per uno che aveva girato mezzo mondo per recensire opere e persino, con disappunto di Verdi che ci vedeva poca spontaneità e molto “evento”, al Cairo per la prima di Aida. Ma forse era solo un modo per dire quanto gli piaceva questo capolavoro di Bizet.
Nel 1882 Carmen circolava in Europa ormai da sette anni, per lo più nella solita traduzione italiana di Antonio De Lauzières (figlio di Achille, traduttore in italiano del Don Carlos di Verdi) cantata per la prima volta a Pietroburgo nel ’78, ma a Parma si presentava in una produzione organizzata da Italo Campanini, che ricopriva anche il ruolo di José, con suo fratello Cleofonte sul podio, Stella Bonheur a fare Carmen, Giuseppe Del Puente come Escamillo e le scenografie di Girolamo Magnani, insomma qualcosa di più che un allestimento appetibile, tanto più che lo stesso Filippi sottolineava quanto il tenore-impresario non avesse badato a spese, ed era vero: ottanta comparse, ventisette ballerine, novanta coristi e musica della fanfara del quarto atto sul palcoscenico.
È la famosa prima Carmen al Regio accolta così così dai parmigiani, tanto che Campanini (Italo) se la legò al dito e il giorno dopo si inventò un malanno per non andare in scena, quantunque pare al debutto siano stati bissati due arie e l’entr’acte del terzo atto, i cantanti chiamati in proscenio e le scenografie osannate. È probabile che in città sull’opera di Bizet girasse qualche pregiudizio. Filippi, sbalordito da un parmigiano suo amico e pare tutt’altro che digiuno di musica («Carmen non è che un’opera di canzonette, con una fine tragica»), insorse: «la Carmen è un’opera nel senso più ampio e rigoroso della parola, è un quadro stupendo di colore locale, segue sempre con mirabile efficacia le fasi del dramma, e col recitativo di una straordinaria solidità, sostituito al dialogo parlato, è adatta alle più grandi scene».
Poco prima aveva sottolineato del resto che «a prima si vista si crede che si tratti di un’opera comica, e lo è nell’apparenza, ma nella sostanza è un operone serio, serissimo, ch’esige mezzi complicati, artisti speciali, ed è per giunta di una grande difficoltà, tanto di esecuzione musicale, come di interpretazione drammatica». E poco dopo, appena elogiate le «delicatezze, le sfumature, le eleganze di quella istrumentazione», che in quest’opera anche la parte corale è assai impegnativa perché «come esigono i nuovi intendimenti del dramma musicale, il coro è un personaggio, non già un’accolta automatica d’individui, che cantano spesso all’unisono, alzando a perfetta vicenda la mano diritta e la sinistra». E non aveva ancora cominciato a descrivere l’allestimento del Regio, sul quale ci informerà che Italo Campanini aveva fatto di José un personaggio «focoso, selvaggio, quasi brutale».
Un momento. Fermi tutti. Queste sono dichiarazioni da commentare.
1) «Nella sostanza è un operone serio, serissimo».
Tutto vero, anche perché è difficile prendere sul ridere un femminicidio e una mamma morta. Lo stigma di Carmen nasceva all’epoca dal fatto di essere un’opéra-comique, anche se nella fase “post Sedan” in cui il genere opéra-comique, solitamente legato a soggetti leggeri e sentimentali, stava convergendo sui caratteri del grand-opéra (e a sua volta il grand-opéra si andava imborghesendo abbandonando i quadroni storici). Una caratteristica da abbandonare rapidamente, se si voleva imporla sul mercato italiano. Infatti, con i recitativi preparati da Guiraud per Vienna, si presentava «adatta alle più grandi scene». Anzi, occorreva rivestirla di ogni modernità, la modernità del “dramma musicale”, cioè i mezzi complicati e gli artisti speciali (c’est à dire quello che aveva scritto Verdi a Ricordi due anni prima a proposito di un’altra faccenda: i cantanti per le opere, non le opere per i cantanti). In realtà Carmen è opéra-comique meramente per quanto attiene al lavoro dei librettisti, che hanno cercato in tutti i modi di attutire la ferina prevalenza delle passioni che rigurgitano dal racconto di Merimée non solo per non offendere il pubblico benpensante e non solo per far risaltare per contrasto la natura di Carmen e la piega che prende la situazione, ma anche perché a Parigi si faceva così, e basta pensare alla figura di Alice in Robert le diable di Meyerbeer, che porta al fratellastro Robert una lettera della madre morente, la stessa cosa cioè che fa Micaëla con José. Per il resto, Halévy e Meilhac avevano un background nel teatro di Offenbach che li metteva più sul piano dell’operetta che su quello dell’operona. Era Bizet, semmai, che puntava a scrollare l’opéra comique dalle convenzioni, per assicurarsi un successo popolare ma di qualità, perfezionista e sinceramente appassionato del proprio lavoro com’era. E i tempi sembravano maturi. Per farlo, occorreva però passare attraverso la musica, una musica non necessariamente innovativa, ma certamente ricontestualizzata.
2) «Le delicatezze, le sfumature, le eleganze di quella istrumentazione».
È vero che Richard Strauss anni dopo dirà che se si vuole imparare a scrivere per orchestra bisogna studiare la partitura di Carmen, ma Carmen non è la Hérodiade, non è Tristan und Isolde, non è nemmeno Faust, anzi è un caso atipico nel contesto musicale francese di quegli anni, proprio perché sfugge dall’impasto orchestrale e dalle morbidezze, privilegiando semmai i timbri puri. La base è sempre quella degli archi, ma nella seguidilla emerge il flauto, nel coro dei ragazzini all’inizio spiccano ottavini e cornetta, il corno inglese sottolinea il momento in cui José si toglie il fiore dalla giacca, nell’entr’acte del quarto atto spunta l’arpa, il fagotto prende in giro Zuniga nel finale secondo, il clarinetto accompagna Carmen al rientro dopo la rissa – e sono solo esempi. In generale l’orchestrazione di Carmen è leggera, e anzi la sua qualità principale è quella di variare non tanto in sfumature e delicatezze, ma di peso o di densità in relazione alle situazioni sceniche.
3) «Un quadro stupendo di colore locale».
L’altro ingrediente è il colore spagnoleggiante, è vero, che però non è un esotismo e neppure, come pensava Filippi, ciò da cui emerge il dramma delle passioni. È invece il modo con cui Bizet si distacca dalla materia dell’opera. La rende oggettiva, in pratica. Il che non significa freddezza, ma un approccio diretto alla realtà della vita. Il contrario di Gounod e Massenet, così presi dalle dinamiche minime dei sentimenti. Bizet non concepisce una musica filosofica alla Wagner, lui che era addirittura antireligioso, e anche per questo Nietszche ha opposto Carmen al mondo di Wagner, e della musica di Carmen gli sembrava di cogliere direttamente la causa. E anche per questo, oltre che per aver usato materia “popolare”, Carmen è diventata un modello per i veristi italiani.
4) «Focoso, selvaggio, quasi brutale». Infatti Filippi qui non coglie che Italo Campanini aveva sbagliato a impostare il profilo psicologico di José equiparandolo a quello di Carmen e facendo perciò della loro vicenda una questione interna di cultura sociale. Così è in Merimée, forse. Ma qui sono entrati in scena Escamillo e Micaëla, e Micaëla non a caso si avvale di un registro musicale differente, alla Gounod, cioè il massimo disponibile del convenzionale e del moraleggiante, ed Escamillo è uno sprezzante, che manipola sentimenti e tori con lo stesso distacco (e qui ribollono ottoni e percussioni). Il dramma scaturisce semmai proprio dal fatto che José è un convenzionale bravo ragazzo, un po’ marmittonesco, a cui in un secondo momento Carmen strappa dalle budella gli istinti più repressi. Ma i due appartengono a mondi diversi. Il che non significa che Carmen sia una prostituta volgare, come alcuni interpreti e alcune regìe tendono a fare. È anzi una donna che non disdegna i sentimenti – infatti si innamora – e ne è sensibile al punto da esorcizzarli nella passione pur di non rimanerne ferita. In realtà nel racconto Carmen è piccola, magra, giovane, più carina di una zingara comune, veste con leggiadria e danza bene, e in fondo ama ancora José perché lo aspetta e lo incontra (archi, pizzicati, rullio di percussioni). E non significa neppure che Micaëla sia una santarellina dolente: è invece una donna di carattere che per il suo uomo affronta un manipolo di soldati rozzi e si inerpica sola fra montagne controllate da contrabbandieri. Se c’è un pericolo, quando si mette in scena Carmen, è proprio adagiarsi alle banalità.
Morale della favola: Carmen è la più innovatrice delle opere tradizionali proprio perché applica strategie antiche a una materia nuova in un momento storico inatteso. Bizet è tutto fuorché un riformatore. I suoi miti erano Mozart e Verdi. Ogni deviazione della linea tradizionale per lui assumeva i connotati sospetti del wagnerismo, pur non disprezzando in fondo neppure i drammi wagneriani, risvolti filosofici a parte. Non a caso, quando con Don Carlos si trova di fronte un Verdi meno tipico, gli dà subito del wagnerista. Carmen è della stessa pasta di Don Giovanni e Violetta, è fuori dalle convenzioni e dalle leggi. La sua filosofia di vita è quella dalle opere di Mozart: passioni, sensualità e vitalità. La Spagna di Carmen, i suoi ritmi di danza, sono come l’Egitto di Aida, un artificio per inventare il vero, come diceva Verdi, anziché semplicemente copiarlo. E, come Verdi, Bizet sa che la degradazione si nasconde nella semplicità: la habanera di Carmen e i couplets di Escamillo sono come “La donna è mobile”, la musica villereccia di Macbeth, il valzerino degli spiritelli di Giovanna d’Arco, cioè un’abiezione morale. Ma il Duca di Mantova è il Duca di Mantova, Giovanna d’Arco è Giovanna d’Arco, il re Duncano è il re Duncano, mentre qui ci si aggira fra banditi, zingari, sigaraie, soldatacci e toreri mentre là fuori il mondo sta entrando nel pieno del suo slancio tecnologico: ecco perché invece di complessità e ripiegamenti, Bizet gli sbatte in faccia la brutalità dell’esistenza.
www.teatroregioparma.it


 

 

 
 
 

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