Le radici scozzesi
di Francesco Lora
Al Theater an der Wien, Der fliegende Holländer è andato in scena nella sua primissima versione del 1841: la concertazione di Minkowski, una solida compagnia di canto e lo spettacolo di Py garantiscono una lettura eccellente.
VIENNA, 17 novembre 2015 – Nel mondo germanico, e più in generale in gran parte del contesto musicologico, la chiamano Urfassung: ossia la primissima versione di un’opera testuale – nel nostro caso una partitura – che è poi incorsa in modifiche spesso consistenti, dovute a ripensamenti dell’autore o a mere questioni pratiche. La gerarchia tra una prima e un’ultima versione, e ancora con le eventuali intermedie, non è stabile e muta a seconda di chi ne ha la recezione, in tempi e luoghi differenti e in relazioni ad aspetti e grado di competenza. Una gioia dei nostri tempi, segnati da qualche effetto filologico, è stata la riscoperta del primo Don Carlos (1867, magari con la riapertura degli estesi tagli effettuati durante le prove) e del primo Boris Godunov (1868-69); ma lo è anche l’ascolto delle danze e del nuovo concertato che Verdi approntò per il debutto parigino dell’Otello (1894), ultime pagine da lui composte per il teatro e mai entrate nella circolazione corrente dell’opera.
L’intrico di versioni diverse riguarda anche l’opus di Wagner, a partire dal caso del Fliegende Holländer (L’olandese volante o, come una volta lo si chiamava in Italia, Il vascello fantasma). La veste teatrale e musicale nella quale d’abitudine lo si ascolta oggi è il risultato di interventi stratificatisi dal 1843 al 1852 al 1860. Ma la stesura fatta a Parigi nel 1841 è prodiga di sorprese: l’ambientazione è scozzese anziché norvegese, sicché Daland ed Erik si chiamano ancora Donald e Georg; la ballata di Senta, non ancora trasposta da La minore al tono inferiore per agevolare il soprano Wilhelmine Schröder-Devrient, ha altro slancio e brivido; l’azione è divisa in tre episodi, senza tuttavia che gli entracte strumentali consentano la soluzione di continuità del colossale atto unico; la strumentazione e lo stesso svolgimento melodico si presentano più asciutti e scattanti, già appieno compiuti anche senza il “tema della redenzione” a trasfigurare romanticamente la fine dell’Ouverture e dell’azione tutta.
Proprio l’Urfassung del Fliegende Holländer è ora andata in scena al Theater an der Wien, per sei recite dal 12 al 24 novembre; e lo spettacolo ha riconfermato la vocazione del terzo teatro d’opera viennese, con lo Staatsoper e il Volksoper, a essere più di tutti il salotto buono del raro, del nuovo, dell’eletto, del curioso: un festival musicale che dura tutto l’anno. La novità è non solo nella declinazione particolare del titolo famoso, ma anche nella rosa degli interpreti. Si ritrova, innanzitutto, un vecchio innamorato del Fliegende Holländer, tuttavia più noto per la sua specializzazione settecentesca: Marc Minkowski, che lo si creda o no, entusiasma più in questo Wagner che nello Händel e nel Rameau che gli hanno procurato la fama. Alla testa dei suoi Musiciens du Louvre, strumenti originali di fattura romantica al séguito, egli conferisce senza cedimento a tutta l’opera memorabile tensione, mordente, gioco improvviso e lancinante di luci e ombre sull’essenziale timbrico.
L’orchestra francese fa assaporare inoltre quella che sarebbe la volumetria autentica della compagine strumentale, come conosciuta e predisposta dall’autore. Con l’impeto a briglie sciolte e gli orecchi morsi dal suono, il canto non risulta tuttavia mai coperto e può così concentrarsi sulla ricerca interpretativa anziché sulla sopravvivenza vocale. Nella compagnia, il più noto è Samuel Youn, Olandese titolare degli ultimi anni a Bayreuth, attore non rivelatorio ma basso tecnicamente ferrato e qui più che mai propenso a sfumare. Speciale è invece la riconferma del soprano Ingela Brimberg come Senta: non troppo agiata nel registro acuto – ma va ricordato, nella ballata, lo scabroso ripristino della tonalità originale – ella vanta tuttavia un’emissione di inconsueta solidità e un piglio recitativo da protagonista; ne esce un personaggio non sognatore ma riflessivo, maturo e determinato, cui si accompagna una figura e un’espressione davvero femminili e latori di giovinezza.
Volume importante, pienezza timbrica e porgere cordiale si trovano nel Donald di Lars Woldt: nulla avrebbe patito al cospetto di un’orchestra più invasiva. L’amoroso Georg, patetico cicisbeo che nell’ambientazione norvegese strappa più sorrisi che lacrime, gode nel tenore Bernard Richter di un fremito romantico insospettato e trascinante. L’altro tenore, Manuel Günther, è un Timoniere forbito nel canto e prestante nel fisico, mentre Ann-Beth Solvang è una Mary di densa pasta mediosopranile. Si ammira il nuovo allestimento con regìa di Olivier Py, scene e costumi di Pierre-André Weitz e luci di Bertrand Killy: l’immenso e stilizzato corpo di una nave si scompone e orbita sul palcoscenico girevole, ricomponendosi poi gradualmente verso lo scioglimento; nel finale, indimenticabile rimarrà la figura di Satana che agita un mare di onde nere: l’Olandese vi si incammina disperato e senza voltarsi, mentre Senta lo segue silenziosa e risoluta come una gotica Euridice.
Foto/Copyright: Werner Kmetitsch