L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La strada del passato

di Isabella Ferrara

Bros di Romeo Castellucci va in scena al Teatro Bellini di Napoli e mostra l'orrore del presente fra passato e futuro.

Napoli, 14 dicembre 2022 - Nel fumoso buio della sala una luce, come fosse divina, illumina il bianco abito e la bianca barba di un uomo che appare nelle sembianze di un profeta, l’attore Valer Dellakeza. Parla, bisbiglia, solo di poche parole si riesce a catturare il senso, saranno le uniche dell’intero spettacolo, dominato dal fragore della materia, naturale e contraffatta, nelle costruzioni sonore di Scott Gibbons. Il silenzio delle voci, l’assenza delle parole, e il rumore degli oggetti e delle azioni degli uomini.

Sulla curva del tempo che poggia su un palcoscenico tutto nero, presenze sceniche, non solo attori, non veri protagonisti, ma comparse dalla strada della quotidianità, semplicemente eseguono degli ordini nascosti, e senza opporre pensiero, personalità, o esprimere incertezza, raccontano la storia.

Bros di Castellucci è un continuo rimando al passato, al simbolismo di immagini, oggetti, gesti, suoni. Un richiamo alla storia dell’uomo. Che spiega o rivela il presente, e profetizza il futuro cercandone le origini nel passato. La condanna dei peccati, la punizione, l’iniziazione per ridurre alla sottomissione nel nome di un bene superiore; è una religione, come una forma di totalitarismo, o come la continua imitazione di qualcosa d’altro da noi. La religiosa devozione alla dittatura dell’immagine, che scatta foto di tragedie e di sofferenze, mentre si compiono. E chi le compie, e chi le guarda, obbedisce a qualche ordine muto, inspiegato e inspiegabile. Non serve un senso, e il significato appare solo nell’azione, il gesto ne è privo prima di essere compiuto. Come automi agiamo, procedendo senza udito, o vista, o olfatto, senza pensiero, privi di volontà se non quella di obbedire a ciò che meno ci parla, che meno ci guarda, che meno ci spiega. Ad ogni era il suo impeto. Secondo la legge di un Dio divino, o pagano, o di un solo uomo divinizzato, di un’immagine da raggiungere, o da superare o da distruggere.

La poltrona scomoda dello spettatore ospita un certo stupore, un senso di inquietudine e di disagio. Assistiamo alla messa in scena di quello che è quotidiano ormai, le violenze, le aggressioni ingiustificate, le punizioni, fino alle torture; l’insensatezza di certe azioni, l’inconsistenza di certa convinzione nell’obbedienza muta e cieca e sorda a ordini su cui non si riflette, non ci si interroga. A che servirebbe se il fine è unico. Che importa cosa fare o come farlo, conta solo il fine. Che qualcun altro conosce, perché meno si sa, più è semplice. La ripetitività di certe azioni scandita dal fragore assordante dei suoni materici, crea inquietudine e disagio. Certa violenza guardata e non respinta soffoca urla di incredulità, in attesa che finisca, a chiedersi quando è che basterà. L’applauso finale lascia andare quel sospiro di sollievo che non sia toccato a noi.

Come si fa a parlare e spiegare l’orrore quotidiano che dal passato ci fa costruire un futuro replicato nello stesso bianco e nero che copre le differenze. Oggi che, come ieri, non ascoltiamo chi profetizza il male o anche un bene da venire, chi ascolterebbe ancora un sermone o una parabola. Siamo assordati dai rumori, e accecati dagli schermi, reali e virtuali, che guardiamo senza sosta. Siamo storditi dalle immagini. Pensiamo di scegliere e decidere secondo valori, morale, fede, idee, e non ci accorgiamo di percorrere la strada del passato. È il futuro che prepariamo alle nuove generazioni fornendo loro gli strumenti che noi stessi ci imponiamo. Le divise da ordine costituito con manganelli e pistole ne sono la semplificazione nel realismo più crudo e anche più immediatamente comprensibile. Fratelli dalle origini, pronti a distogliere lo sguardo, ad agire senza voler sapere né capire, senza fare domande, o cercare risposte. Uguali, come replicanti di noi stessi nel frastuono che ci confonde.


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