L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

il ratto dal serraglio, strehler

Nobile semplicità e quieta grandezza 

 di Pietro Gandetto

Ritorna al Teatro alla Scala Die Entführung aus dem Serail di Mozart nella storica produzione di Giorgio Strehler del 1965. Il successo della serata si regge sulla chimerica bacchetta di Zubin Mehta, prodiga di eleganza, misura e dolcezza. 

Milano, 21 giugno 2017 - A vent'anni dalla scomparsa di Giorgio Strehler e a dieci da quella dello scenografo Luciano Damiani, la Scala riporta in scena Il ratto dal serraglio concepito dal regista milanese nel 1965 per il Festival di Salisburgo. E oggi come allora sul podio il maestro Zubin Mehta.

In bilico tra realtà e finzione, tra esotismo e occidente settecenteschi, il tedeschissimo Singspiel - che in Italia non attecchirà praticamente mai - segna una tappa fondamentale nell’evoluzione compositiva del Salisburghese e traccia il solco sul quale nel’800 Beethoven e Weber comporranno capolavori come il Fidelio e sul quale poi si svilupperà anche un altro genere, l’operetta. In sostanza un teatro a metà strada tra prosa e musica, in cui dolcissimi e movimentati Lieder (più che vere e proprie arie, soprattutto in origine) si inanellano l’uno nell’altro scivolando tra dialoghi parlati.

Le parole d’ordine sono dunque la grazia, la leggerezza, le tinte pastello. Un effetto ottenibile solo grazie a interpreti di prim’ordine, che sappiano esprimere senza troppi fronzoli o eccessi drammatici storie avvinte da quel senso di magia e fiaba che nel teatro barocco prendeva il nome di marveilleux e che si rinnova nella tradizione tedesca della Zauberoper in Mozart trova terreno fertile anche in capolavori come Il flauto magico.

Risulta ancora coinvolgente l’edizione di Strehler accuratamente ripresa da Mattia Testi, che alla Scala non ritornava dal 1994. Tratto distintivo è l’alternanza drammaturgica di luce e ombra - trasposizione teatrale di realtà e finzione. La parola parlata è illuminata, con un'appropriata commistione degli strumenti tecnici del teatro di prosa e di quello musicale. La parola cantata, invece è buia, perché a ogni aria il personaggio “entra” in proscenio e ,superando il boccascena disegnato da Luciano Damiani, si eleva allo stato di silhouette sul fondale azzurro, si perdono i tratti del viso e del corpo, resta un’idea musicale. Un teatro da camera, che ripropone le quinte dipinte tipiche del teatro barocco, e che ne condivide l’attrazione per quell’Oriente così vicino, ma così lontano come, per esempio, qui è l’impero turco. Un incastro di geometrie ed equilibri che danno conto dello straordinario talento compositivo di un autore che a unici anni componeva le prime opere e che ventiseienne con Il ratto dal serraglio portava a sintesi l'ispirazione giovanile con una la dimestichezza tipica di un maturo maestro del teatro.

Il buon esito dello spettacolo si regge soprattutto sulla crepuscolare concertazione di Zubin Mehta. Il direttore ricava dalla partitura un suono chimerico, leggero e madreperlaceo, tipico di quel modo di eseguire Mozart che oggi scarseggia, sostituito dalla ricerca di una brillantezza che spesso straborda in giocosità forzata e dozzinale. Prevalgono qui i toni ariosi e sfumati, che Mehta aveva già adoperato alla Scala - con tendenze più nostalgiche - per il Rosenkavalier della scorsa stagione (leggi la recensione), e che placano gli impeti eccessivi di alcuni interpreti (Osmin) e al contempo innervano di dinamismo i pezzi di insieme.

Nel cast vocale, spicca la Konstanze di Lenneke Ruiten, apprezzata interprete del Lucio Silla scaligero del 2014 (leggi la recensione). Il soprano conferma un materiale di prim’ordine nel quale non mancano qualità timbro, tecnica, e musicalità. Elegante nel porgere, non straborda mai nel manierismo di cui sono vittime molte “dame mozartiane”. Dolce nei passaggi più lirici e puntuale nei picchettati e nei trilli di quelli più acrobatici.

Il Belmonte di Mauro Peter è dotato di una voce di bel colore e ben gestita. Il gesto scenico è ricco di trasporto soprattutto nelle attenzioni dedicate all’amata Konstanze, anche se talvolta si è riscontrata una certa rigidità. Bene il Pedrillo di Maximilian Schmitt e la Blonde di Sabine Devieilhe. Cornelius Obonya è un Selim troppo declamatorio e ieratico, e ne risulta una lettura del personaggio ormai superata. L’Osmin di Tobias Kehrer funziona, con gravi e centri timbrati e rotondi.

I consensi finali incorniciano il consolidato successo di questo spettacolo.

foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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