L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fazil Say

Fazil Say, il corpo e l'estasi

di Alberto Spano

Il pianista turco torna a Bologna per il ciclo "Lezioni di Piano" ed esprime tutta la sua singolare quanto prorompente personalità.

Bologna, 5 febbraio 2017 - C'è poco da fare: il disco-capolavoro di Fazil Say è senza dubbio quello del 2006 con cinque Sonate di Franz Joseph Haydn (Hob. XVI nn. 10, 31, 35, 37, 43), registrato a trentacinque anni nel piccolo Teatro delle Quattro Stagioni di Gradignan, nel sudovest della Francia. L'album suscitò l'entusiasmo incondizionato della critica internazionale che forse per la prima volta fu unanime nel considerare il talento pianistico del controverso pianista turco. Il quale nella musica di Papà Haydn sembra trovare un miracoloso equilibrio fra genio e sregolatezza. Sensazione provata anche l'altra sera durante il bel recital di Fazil Say al Teatro Comunale di Bologna, secondo appuntamento (dopo Pollini) della serie “Lezioni di Piano” curata da Musica Insieme. Qui l'ormai quarantasettenne pianista apriva la serata con la luminosa Sonata in do maggiore n. 35, che comincia con un irresistibile Allegro con brio che è come la trasposizione in musica dell'espressione “l'argento vivo addosso”. E in effetti mai la si era ascoltata così ben espressa, meglio dal vivo che in disco. La musicalità di Fazil Say qui è addirittura prorompente, una specie di orgia sonora di trilli e acciaccature, e per quanto fresca e zampillante risulti questa solare apertura, tanto cupa e obliqua pare l'atmosfera nel successivo Adagio, in cui Haydn si diverte a fare il “serioso”. E poi l'esplosione finale: un Allegro tipico di chiusura di Sonata, che ci riporta al festoso clima iniziale.

Fazil Say non si risparmia: usa tutto di sé per questa specie di 'messa' pianistica: le dita, le mani, i gomiti, il collo, la testa, la bocca, la voce, il corpo intero. Fin da subito, e molto più oggi di dieci anni fa alla prima occasione in cui lo si ascoltò a Musica Insieme, Fazil Say usa veramente tutto ciò che può per raggiungere un preciso risultato, compresa la mimica facciale. Nel caso haydniano si tratta di un rapporto quasi fisico con una musica sì eccelsa, ma lievemente ingessata, che pare solo aspettare l'interprete illuminato per sprizzare tutta l'ironia, il gioco, la gioia e il dolore che contiene. Per esempio Fazil Say ama muovere il braccio sinistro nell'aria mentre non suona, mimando letteralmente la musica che sta suonando con la mano destra. Una specie di auto-direzione. È una pratica che ovviamente qualsiasi buona scuola pianistica censurerebbe, ma che si è vista fare in modo mirato da Glenn Gould, soprattutto in certi adagi bachiani. L'influsso gouldiano è più che evidente, ma non bisogna dimenticare che Say ha studiato a fondo le pratiche improvvisative ed è quindi aduso ad un certo tipo di libertà gestuali tipiche di alcuni grandi maestri del jazz, uno per tutti Keith Jarrett. Stimoli e influenze le più varie finiscono per coabitare nel suo inebriante pianismo, in cui tutto si trova, tranne la pratica del bel suono, del fraseggio, della tecnica ortodossa: la musica fluisce con prepotenza, la forma e la sua realizzazione è visibile concretamente. Tutto scorre e tutto si realizza in un nervoso flusso vitale che a volte sfiora l'estasi. Il suono è spesso brusco, quasi vitreo, il pedale è usato di conseguenza, l'uso di legato-staccato che sembra improvvisato di volta in volta, è in realtà coerente con un lucido pensiero che ha sempre come principio fondamentale quello della chiarezza formale. Haydn appare dunque autore assolutamente ideale per questo tipo di pianismo solo apparentemente 'spontaneistico'. Donde la bellezza quasi incommensurabile del disco Naïve del 2006 e della maiuscola prestazione in concerto (nella seconda parte della serata era la più compunta Sonata in re maggiore Hob. XVI n. 37), mentre discorso del tutto diverso vien da fare per i Mozart e Beethoven successivi.

La 'maniera' di Say in Mozart appare meno azzeccata: perché? Le ragioni sono tante, e ognuno può trovare le proprie risposte. Quando attacca la Sonata in fa maggiore KV 332, per esempio, Say sembra voler issare sul palcoscenico un piccolo teatrino settecentesco, con i vari personaggi in commedia mimati addirittura fisicamente. Con le mani suona, con la testa piegata a sinistra guarda in fondo al palcoscenico quasi a voler cercare qualcuno. Poi si gira e guarda il pubblico, guarda in sù, in giù, a volte si alza sulla sedia, si avvicina pericolosamente al pianoforte, oppure si allontana, è nervoso, brontola, fa le facce, guarda l'infinito.

È il mondo mozartiano, così ricco di immagini cangianti, che glielo concede, e lui un po' se ne approfitta. Il pubblico però ne è soggiogato e se ne innamora.

In ultima analisi la musica sembra quasi interpretata in scena, come 'spiegata' fisicamente. Tutto appare più chiaro, conseguente, naturale. È la sconfitta tombale della noia e del sussiego. Evviva, vien da dire.

Poi però arriva la “Tempesta”di Beethoven, il capolavoro, la Sonata in re minore op. 31 n. 2, quella a sentir lui in una rispostaccia a un allievo, ispirata da Shakespeare. Qui Fazil Say esagera: eseguito l'accordo iniziale e cominciata la serie di note singole una dopo l'altra lungo la tastiera, cosa ti inventa il Nostro? Mentre la mano destra suona, col corpo quasi si alza, entra nello strumento e con l'indice indica (e quasi tocca) la corda che sta per colpire col martelletto attraverso il tasto pigiato. Effetto totalmente inutile ai fini strumentali, ma assolutamente visionario e diremmo quasi “rivelatorio” agli occhi degli spettatori, soprattutto i più sprovveduti. Incontenibili esigenze interiori? Moti spontanei? Esibizionismo? Fatto sta che nell'intervallo la parola “istrione” è sulla bocca di tutti. Novello Vittorio Gassmann pianistico, Fazil Say sembra più un mattatore della scena che un pianista classico, e l'apice della sua “recita” lo raggiunge nella Sonata KV 331 di Mozart, quella contenente il celebre Rondò “alla turca”. Qui Fazil Say ne combina di tutti i colori, libero verso la meta finale: tutto è come ipertrofico, dalla dilatazione e contrazione dei tempi all'uso delle dinamiche, tanto che spesso ci scappa qualche nota sporca. Inutile dire che quasi mille persone aspettano con trepidazione chissà quali provocazioni nella Marcia Turca, in altre occasioni frutto di una sua geniale reinvenzione in chiave jazz che ora molti colleghi eseguono come bis (Arcadi Volodos e Yuja Wang i più noti).

E invece no: l'ineffabile Fazil Say, uno dei pianisti più creativi del nostro tempo, spiazza tutti e stavolta suona una Turca quasi “accademica”. Applausi, urla, entusiasmo alle stelle, Fazil Say accende il Teatro Comunale ed ecco i bis, concessi subito: tre proprie composizioni, la prima giocata sulla pratica di toccare le corde smorzando la corda con la mano sinistra mentre l'altra suona (autocitazione a rovescio della Tempesta) e la seconda improvvisatoria su Summertime di Gershwin. Evidentemente parodistica l'interpretazione dei due ultimi bis, il Notturno op. 9 n. 2 e l'innocente Notturno in do diesis minore, opera postuma. Qui Say ha infarcito la limpida scrittura chopiniana di tutti gli orpelli di suoni sospesi, di rubati d'antan e di scampanamenti vari che si sarebbero potuti ascoltare da un pianista nato nella seconda metà dell'Ottocento.


 

 

 
 
 

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