L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

 Christoph Eschenbach

Brahms con gli steroidi

 di Alberto Ponti

All'insegna dell'Ottocento tedesco l'esordio di Eschenbach all'auditorium Toscanini.

TORINO, 21 aprile 2017 - Gli manca la capigliatura candida, unita agli atteggiamenti divistici del sovrano al quale tutto è concesso. Per il resto la figura di Christoph Eschenbach, ospite per la prima volta dell'Orchestra Sinfonica Nazionale giovedì 20 e venerdì 21 aprile, potrebbe evocare, a cominciare dal gesto che non ammette fraintendimenti e da una certa severità nello sguardo, la figura di Herbert von Karajan, ai cui insegnamenti, insieme a quelli di Georg Szell, risale il suo apprendistato sul podio.

L'attacco della sinfonia n. 4 in la maggiore op. 90 Italiana (1830/33) di Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847), pur mille volte udito, lascia in bocca il sapore di una rivelazione: le terzine ribattute dei legni scorrono con una morbidezza aggraziata sconosciuta allo stesso Schubert e l'immortale melodia in 6/8 degli archi racchiude, nei suoi salti di terze e di quinte, le promesse e i misteri di una terra leggendaria nel concedersi per la prima volta, nell'ebbrezza di un sognato grand tour, agli occhi e all'immaginazione del giovane genio disceso da nord delle Alpi.

Nella visione di Eschenbach si avverte tutto lo spessore della secolare tradizione tedesca: il suono, anche nei passi di maggior trasparenza, mantiene una sua specifica densità, ma con una levigatezza gioiosa che ben si addice alla luminosa pagina mendelssohniana, mentre i tempi, mai incalzanti, immergono talvolta la partitura in un pathos lievemente elegiaco a costituire il lato più inaspettato e sorprendente dell'esecuzione.

Mirabili sono la cura dei particolari e la precisione che si trasmettono dalla bacchetta a ogni sezione dell'orchestra: il richiamo ovattato dei corni nel trio del terzo movimento Con moto moderato pare provenire dalla lontananza incantata delle leggende romantiche; oboi e fagotti, nell'idea principale dell'Andante con moto inverano la mestizia inconsolabile di ataviche processioni religiose dell'Italia centro-meridionale che furono fonte di ispirazione per il musicista in viaggio verso Napoli.

Eschenbach, già pianista di eccelso talento e oggi direttore tra i massimi del panorama contemporaneo, trova la propria consacrazione con il passaggio, dopo l'intervallo, al quartetto in sol minore per pianoforte e archi op. 25 (1861) di Johannes Brahms (1833-1897), nella magnifica trascrizione per grande orchestra effettuata nel 1937 da Arnold Schoenberg (1874-1951).

Commissionato da Otto Klemperer, che per primo lo eseguì alla testa della filarmonica di Los Angeles, il pezzo è annoverato a ragione tra le pagine più virtuosistiche di tutta la letteratura sinfonica.

Schoenberg scava a fondo nel senso vivissimo della forma già presente nella composizione originaria: fin dal grandioso e drammatico Allegro di apertura lo svolgersi e l'intrecciarsi dei temi viene esaltato mediante una scomposizione di colori e di timbri di estrema ricercatezza, con effetti audaci ma sempre a segno, tra i fulminei cromatismi degli ottoni e gli inserti melodici dello xilofono.

Le mani del maestro originario di Breslavia plasmano con sicurezza demiurgica il movimento come un come un blocco di granito percorso da cima a fondo da una interna tensione magnetica, per poi assecondare l'aspetto più sereno e a tratti perfino ludico dei due tempi centrali.

Il Rondò alla zingarese incendia definitivamente l'atmosfera, con la corsa vorticosa degli archi ripresa da tutta l'orchestra in un crescendo emotivo di sensuale esuberanza fino all'elettrizzante stretta finale, premiata dal trionfo assoluto per tutti gli interpreti decretato da una platea non così folta come l'occasione avrebbe meritato.


 

 

 
 
 

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