Diamanti sul velluto
di Roberta Pedrotti
Strepitoso recital di Arcadi Volodos a Bologna con un programma consacrato al romanticismo austrotedesco fra Schubert, Schumann e Brahms.
BOLOGNA, 9 maggio 2017 - Se una classifica tennistica potesse avere un qualche effimero senso anche quando si parla di musicisti (e non ne ha, fuor di qualche giochetto fra fan tifosi), di certo un seggio sull’Olimpo non si potrebbe negare ad Arcadi Volodos.
Fin dagli esordi, il pianista russo ha messo sul piatto un virtuosismo superbo, sfrontato, prodigioso, anche perché l’agilità e il controllo facevano il paio anche con un suono polposo, che appare ancor più eclatante nella gestione delle voci, della velocità, dell’articolazione. Oggi, però, a quarantacinque anni compiuti e nel massimo, si presume, del suo fulgore, Arcadi Volodos conferma sfacciatamente come tanto talento e tale infallibile tecnica siano strumento affinato di un’autentica sensibilità artistica, capace di valorizzare ogni pezzo con un fraseggiare nel suono sempre interessante.
Per questo concerto nel cartellone di Bologna Festival circoscrive idealmente un secolo di pianismo romantico austrotedesco dalla nascita di Schubert a Vienna (1797) alla morte di Brahms nella stessa città (1897); due raccolte di miniature nella prima parte, i Papillons di Schumann e i Klavierstücke op 76 di Brahms, e una Sonata di più ampio respiro, la n. 22 il La maggioe D. 959 di Schubert, nella seconda. Variano le proporzioni, non il valore che Volodos conferisce a ogni pagina, soppesandone ad arte le peculiarità fra tocco e fraseggio. Sotto le sue dita la nota pare risplendere internamente come una stella ammantata da un prezioso pulviscolo, e la metafora potrebbe lasciar il tempo che trova se non corrispondesse alla sorprendente nettezza del singolo suono, così terso e preciso da apparire proprio come un punto scintillante, e alla formidabile quanto singolare capacità di legato di Volodos, che fa percepire un’aura di armonici più o meno soffusi ad ammantare la più limpida linea musicale. Questa sorta di velluto sonoro si fa quasi cremoso in Schumann, là dove i tempi di Valzer e Polonaise si inanellano con una grazia maliosa e debitamente chiaroscurata in una morbidezza avvolgente ma non soffocante, in una dolcezza allettante ma non stucchevole, perché animata dal perlage di un virtuosismo pulito e puntuale quanto mai fine a se stesso, sempre dialettico nel raffinatissimo equilibrio sonoro imposto dal pianista russo.
In Brahms il suono non si asciuga, ma riesce a mutare quel tanto che basta per distinguersi dai Papillons e dare un nuovo sapore all’atmosfera sonora in cui vivono i Klavierstück. Ancora una volta giostra in maniera mirabile tutto l’arco dinamico, declina sapientemente la grazia delle piccole pagine e rivela nella disinvoltura perfin maliziosa con cui cesella i dettagli una sensualità che non avremmo immaginato, ma che purtuttavia non appare gratuita o pretestuosa. Fa sì che nulla, semplicemente, si ripeta, ma conferisce vita e continuità a ogni battuta ammanendo da maestro i superbi ingredienti di cui dispone. Così la Sonata di Schubert incanta e, se dalla prima all’ultima nota è tutta una meraviglia da togliere il fiato, l’Andantino del secondo movimento possiede una soffusa, arcana magia che lo rende non solo l’akmé della serata, ma uno di quei momenti di cui serbare memoria per una vita. Qui il legato di Volodos si esalta ai massimi livelli, ci immerge in un fraseggio felicemente ampio, coerente, lungimirante, in un tutto organico perfettamente modulato in ogni elemento, in ogni increspatura, dopo l’articolazione così ben netta dell’Allegro iniziale e prima della corsa finale del terzo e quarto movimento, in cui il pianista bilancia con classe suprema l’aspetto lieve, fin giocoso, e un’impellenza più inquieta. Gioca da par suo con pesi, dinamiche e fraseggio sempre all’interno del suo superbo legato e quando la partitura gli richiede la gamma del forte e del fortissimo, è tale per intensità e pienezza da non eccedere nei decibel, da non sciupare l’equilibrio e la qualità timbrica ma, pure, offrire esattamente la necessaria tavolozza dinamica, la necessaria, perentoria, forza. Ricordando ciò che propose Volodos un anno fa, sempre a Bologna [leggi la recensione], con una tridimensionalità di suono quasi orchestrale, non possiamo non riconoscere un artista dalla personalità tanto definita dal poter variare senza tema e quasi all’infinito lo spettro delle sue interpretazioni. Par di trovarci di fronte a un’onnipotenza pianistica che non soccombe a sé stessa e alle sue possibilità, ma sa mantenere una sua cifra d’artista, inconfondibile e intelligente.
E simpatico, sempre sorridente, lascia intendere il vero piacere di suonare e di suonare per il pubblico quando inanella fra le ovazioni, ma senza farsi pregare atteggiandosi a divo, ben sei bis: ancora Brahms (dagli Intermezzi op. 117), meditativo ed elegante, seguito dall’esuberanza sfrontata e intrigante di Albéniz (Zambra granadina), Rachmaninov (melodie rivisitata dallo stesso pianista) e Leucona (Malagueña), tre pezzi di virtuosismo trascendentale ancora spruzzato di sensualità iberica, uno Skrjabin, viceversa, così rarefatto da render miracoloso il punteggiare di un pianissimo denso di suono come la migliore mezzavoce; infine una trascrizione dal Siciliano del Concerto per organo in Re minore BWV 596 che Bach trascrisse da Vivaldi e Volodos ha rielaborato, esempio di come le geometrie astratte del Kantor di Lipsia, e il loro intrecciarsi ai capolavori coevi, nella loro universalità abbiano sedotto e ispirato ogni epoca e ogni stile e riescano a metamorfizzarsi in giochi di rubati e artifizi pianistici post e tardo romantici dei più audaci anche all’interno dell’originaria struttura contrappuntistica.
È, prevedibilmente, delirio di pubblico.