L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Colori e colorature

 di Antonino Trotta

Il programma è pop, il successo pure: nella serata inaugurale della stagione 2019/2020 dell’Unione Musicale di Torino trionfa Alexander Romanovsky con un recital monografico dedicato a Chopin.

Torino, 16 ottobre 2019 – Nel suo percorso di formazione Chopin deve forse più a Rossini, Bellini e Donizetti che a Mozart, Haydn o Beethoven: al di là di quelle che poi saranno le proficue esperienze del soggiorno parigino – l’amicizia col Vincenzo nostrano, la sfegatata ammirazione per l’arcidiva Giuditta Pasta, la tenera simpatia per Pauline Viardot, figlia del tenorone Manuel García e sorella della sublime Maria Malibran, per la quale Chopin stesso arrangiò per voce e pianoforte alcune mazurke –, l’opera italiana non era solo il più elevato genere d’intrattenimento disponibile sulla piazza varsaviana degli anni venti dell’Ottocento bensì un vero e proprio laboratorio in cui nutrire e coltivare i giovani talenti musicali. Dal Belcanto italiano Chopin non mutua solo il gusto per la purezza della linea melodica ma intuisce, nella spericolatezza della tecnica, nell’arte della coloratura e degli abbellimenti, in tutto ciò che frettolosamente si suole definire ornamento, un vero e proprio codice linguistico, un potente strumento espressivo e proteso oltre lo scintillante accessorio alla drammaturgia musicale. Tant’è che tra i molteplici, immensi contributi consegnati nell’arco di una vita troppo breve alla letteratura pianistica, l’idea di traslare lo studio dalla freddezza di una cameretta al calore di una platea, per quanto limitata, fonda le proprie basi nell’osservazione del valore poetico di cui le risorsa tecnica può avvalersi. E di certo Alexander Romanovsky, già apprezzato nel Terzo di Rachmaninov appena un mese fa nell’ambito del MITO Settembre Musica, di risorse tecniche ne ha da vendere. Se ne ha perfettamente misura nel concerto inaugurale della stagione 2019/2020 dell’Unione Musicale, dedicato a Chopin in un anno e in una stagione votata a Beethoven - tanti gli appuntamenti interessanti in cartellone, dalla conclusione del ciclo delle sonata per violino e pianoforte con Francesca Dego e Francesca Leonardi a quello dedicato alle sonate per violoncello e pianoforte con Nicolas Altstaedt e Alexander Lonquich, passando per buona parte delle sonate per pianoforte solo e altri vari concerti dalle tematiche collaterali –.

Romanovsky è un pianista di razza: di razza è senza dubbio l’impeto del virtuosismo, che sembra galleggiare sulla superficie epidermica della partitura ma in definitiva si rivela pennello puntuale nella ricostruzione dell’affresco chopiniano. Dalla coloratura a tratti spocchiosa degli studi op.10 e op. 25 Romanovsky infatti trae colori, sfumature liriche, atmosfere chiaroscurali e pronunciate idee musicali: si prenda ad esempio il primo studio in do maggiore, d’ispirazione paganiniana, dove apparentemente il canto si affida all’innocua sinistra. In realtà è la progressione vorticosa di arpeggi a instillare l’idea melodica, a scandire la cantabilità del testo e qui Romanovsky, ora variando il dosaggio del pedale, ora l’impertinenza con cui la falange attacca il tasto, sa conferire varietà al dettato e eloquenza al fraseggio tra un’esposizione e l’altra. Fraseggio che si presenta, sì, spesso altero, quasi violento e disinteressato all’abbandono onirico, ma che nel tris di notturni op. 9 e soprattutto nella quaterna di mazurke op. 24 riaffiora invero vigoroso e autorevole. Ritornando agli studi, affrontati con tempi ovunque gagliardi –le indicazioni metronomiche di Chopin in partitura sono allucinanti! –, oltre al fare della coloratura colori, di Romanovsky impressione anche il mero versante atletico, la capacità di non perdere mai un battito, di condurre alle estreme conseguenze il dominio della testiera, prima in cromatismi al fulmicotone – lo studio op. 10 n.2, quello op.10 n.4 e l’op.25 no. 11 –, poi in terze, seste e ottave che si susseguono tumultuose sul finire dell’op.25.

Come se non bastasse l’eccitazione che il quasi integrale degli studi – mancherebbero all’appello i Trois nouvelles études B. 130 – sobilla nel pubblico, numerosissimo e festoso, Romanovsky sul finire concede ben quattro splendidi fuori programma: l’elegantissimo Notturno n.21 in do diesis minore, l’esuberante ballata in fa maggiore, l’opalescente trascrizione lisztiana di La Campanella di Paganini e lo studio op.8 no.12 di Skrjabin, magnifico sotto ogni angolazione. Se queste sono le premesse, la stagione è da non perdere.


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