L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ricominciare da Violetta

di Luigi Raso

Il San Carlo riapre al pubblico riprendendo il discorso da dove si era interrotto: dopo La traviata di ottobre, ecco un'altra Traviata, che segna anche il ritorno a produzioni almeno semisceniche. I complessi del teatro si mostrano subito in buona forma e desta già entusiasmo il ritorno di José Luis Basso alla guida del coro.

Napoli, 15 maggio 2021 - Mancava da quasi sette mesi La Traviata al San Carlo: verso la fine dello scorso ottobre, quando i teatri furono costretti alla seconda chiusura in meno di un anno, il sipario calò prorpio su Violetta (leggi la recensione). Fu la dura legge del Covid che abbiamo imparato a conoscere fin troppo bene. Stasera si riparte, sempre con Violetta, Alfredo e l’invadente Giorgio Germont. Nel mezzo, ci sono stati concerti e tre produzioni operistiche (Cavalleria rusticana, Il pirata, Il turco in Italia, recensite su questa rivista), il tutto trasmesso in streaming. Si ritorna finalmente in sala: per il momento, solo cinquecento spettatori, che bastano a darci la conferma, casomai ve ne fosse bisogno, di quanto sia asettico e innaturale lo spettacolo in un teatro senza pubblico, con artisti costretti dal virus ad esibirsi davanti a sole telecamere.

La traviata è un titolo di sicuro richiamo: e così, seppur indubbiamente inflazionato nelle recenti stagioni del San Carlo, è diventato quello deputato alle ripartenze.

Un piccolo passo in avanti rispetto alle ultime produzioni proposte ad ottobre 2020 e quelle trasmesse in streaming finalmente (e tardivamente) si registra: il capolavoro di Verdi viene presentato in forma semi-scenica. Apprezziamo lo sforzo, confidando di poter assistere al più presto a rappresentazioni sceniche, così come accade da tempo, in altre Fondazioni liriche.

Stasera ci sono pochi oggetti, vi è un limitato gioco di luci; la protagonista indossa il sontuoso (probabilmente, troppo) costume di scena che Roberto Capucci confezionò nel 2020 per June Anderson per un magnifico Capriccio messo in scena da Arnaldo Pomodoro (altri tempi!). In scena vediamo qualche sedia, tavolini da salotto, un lampadario, qualche pianta, una dormeuse neoclassica e movimenti ridotti al minimo sindacale: più che la tisi poté la Covid-19. Il distanziamento è norma cogente anche sul palcoscenico. Alle mancanze supplisce, come sempre, il genio drammaturgico di Giuseppe Verdi, il quale con i suoi accenti, le melodie, le colorature, dipinge psicologie, sentimenti, sbozza scene complesse come solo a lui e pochi altri eletti riesce di fare. Tuttavia, pur nell’estrema asciuttezza del disegno registico, la locandina riporta il nome di Marina Bianchi quale, appunto, regista.

Il palcoscenico è diviso a metà: nel retro, il coro, seduto e distanziato; davanti, gli artisti e il ridotto mobilio a far da elemento scenografico. La gestualità è ovviamente essenziale ma funzionale al dramma; difficile ipotizzare trovate originali in un’opera allestita in questa forma e con obbligo della tenuta della distanza di sicurezza tra gli artisti: non si sono abbracci, si interagisce a debita distanza. Possiamo pensare che la pandemia, nella declinazione operistica, sarà davvero finita quando Violetta potrà abbracciare Alfredo mentre lo implora di amarla. Un po’ come dire “Rigore è quando arbitro fischia”, come simpaticamente chiosava Vujadin Boškov.

La parte musicale è affidata alla solida bacchetta di Karel Mark Chichon, marito della star Elīna Garanča, per la prima volta al San Carlo.

Quella di Chichon è una lettura della Traviata improntata a una costante levità sonora, alla cura dell’accompagnamento e del sostegno del canto, ma pure - e ne è il punto debole - a una talora eccessiva rilassatezza agogica che rischia di rallentare in più punti il fluire del discorso musicale: rallentandi troppo dilatati, i quali, oltre che a mettere a dura prova la tenuta del fiato degli artisti, appesantiscono in più momenti il ductus musicale. Il suono cavato dall’orchestra del San Carlo - finalmente di nuovo in buca, seppur distanziata: la grancassa e i piatti sono alloggiati nel palco di prima fila di proscenio - è caldo, tornito, ben curato nelle dinamiche, ha sempre il giusto peso, perfetto nell’accompagnare cantanti e coro.

È un ritorno molto gradito a distanza di ben un quarto di secolo, quello di José Luis Basso a capo del Coro del San Carlo: il maestro argentino guidò, giovanissimo, la compagine partenopea per meno di un biennio, tra il 1994 e il 1996. Le sue concertazioni corali lasciarono un ricordo indelebile nella memoria del pubblico del San Carlo (tra il quale, chi vi scrive): in particolare, si ricorda ancora la cura con la quale fu preparato il Lohengrin inaugurale della stagione lirica 1995 - 1996. L’augurio a José Luis Basso è, dunque, di ricevere dal pubblico del San Carlo, dopo i prestigiosi trascorsi a Firenze, Barcellona e Parigi, quell’affetto e quella stima che seppe conquistarsi tanti anni fa a seguito di performance di pregio assoluto. E, infatti, il suo esordio registra immediatamente un risultato più che eccellente: il coro, sempre ben amalgamato con l’orchestra, ha voce compatta, incisiva, dimostra attitudine ad assottigliare, a sfumare. Un ottimo auspicio per il futuro.

Accettabile il livello la compagnia di canto.

Dopo il successo riscosso al San Carlo nelle vesti di Magda nella Rondine di Puccini dell’ottobre scorso (leggi la recensione ), Ailyn Pèrez convince poco come Violetta. Èpur vero che la parte vocale della mantenuta verdiana riserva ben altre insidie rispetto a quella della cortigiana pucciniana; tuttavia, sebbene la Pèrez canti tendenzialmente bene durante il primo atto, con voce dal bel timbro, con pianissimi ben appoggiati, di Violetta c’è poco. All’inizio l’interprete appare spaesata, eccessivamente intimorita. Pasticcia, poi, nelle colorature che chiudono “Sempre libera” e provvidenzialmente rinuncia all’apocrifo mi bemolle conclusivo. Va meglio dal secondo atto, in particolare laddove la scrittura richiede di esaltare i momenti prettamente lirici; appare, invece, sempre poco incisiva, soprattutto nel registro basso, quando Verdi prescrive maggiore pathos.

È un Alfredo troppo stentoreo, poco incline a sfumare quello di Ivan Magrì: la voce ha buon volume, il timbro è suggestivo, però troppo spesso è compromesso da una emissione sforzata, tesa alla ricerca di una veemenza poco indicata per la vocalità di Alfredo. Vocalmente, quello di Magrì, è un Alfredo irruente, che arrischia, centrandolo, il Do conclusivo della cabaletta "Oh mio rimorso!"

George Gagnidze, baritono georgiano già molto apprezzato al San Carlo, dà ottima voce a Giorgio Germont: timbro dalla bella pasta, soltanto minimamente incrinato da qualche suono nasale di troppo, domina con sicurezza la scrittura, esibendo ottimo legato e dispiegando volume sempre adeguato. È un padre autorevole più che autoritario, signorile, misurato nell’interpretazione e sempre elegante nella linea di canto. Del terzetto dei protagonisti, il migliore.

Tra i ruoli secondari merita un encomio la Flora Bervoix di Mariangela Marini, dal timbro affascinante e dalla figura avvenente. Fa bene l’Annina di Michela Petrino, così come il Gastone di Lorenzo Izzo, il barone Douphol di Nicolò Ceriani, il marchese d’Obigny di Donato Di Gioia e il dottor Grenvil di Enrico Di Geronimo.

Ad emozionare maggiormente in questa serata, sia concesso scriverlo, sono i prolungati applausi finali del pubblico: un momento di gioia finalmente ritrovata e condivisa che di colpo spazzano via il ricordo degli alienati saluti degli artisti rivolti verso le telecamere al termine delle trasmissioni in streaming.

Ed è in serate come queste, nelle quali si celebra l’inizio del ritorno a una sospirata normalità, che si è portati ad essere clementi anche verso la coppia che confabula molestamente durante tutto il primo atto nel palco: anche questo, oltre ad essere in primis maleducazione, è dopotutto teatro, vivo e palpitante.

Non resta che attendere il prossimo primo concerto in teatro: l’appuntamento è per sabato 29 maggio, con Juraj Valčuha  che dirigerà l’orchestra del San Carlo in un programma di grande interesse, Langsamer Satz per orchestra d'archi di Anton Webern e la Sinfonia n. 2 in re maggiore Op. 73 di Johannes Brahms.


 

 

 
 
 

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