L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Notte placidissima e qualche vampa

di Giuseppe Guggino

Nella cornice del Teatro di Verdura il Massimo di Palermo, in una serata placida rischiarata da qualche vampa, propone Il trovatore in forma di concerto, affidandolo ancora una volta alle cure di Daniel Oren. Su tutti emerge la maiuscola Azucena di Violeta Urmana.

Palermo, 18 luglio 2021 - È una sera placida di metà luglio, insolitamente fresca per Palermo, quella che accoglie un pubblico non molto numeroso ma ben distanziato fra gli spalti del Teatro di Verdura. Poi l’avvio dello spettacolo slitta di trenta minuti per uno sciopero legato al parziale adeguamento della pianta organica della Fondazione e, alla lettura del comunicato sindacale, le prime vampe iniziano a fiammeggiare fra alcuni spettatori. Poi entra Daniel Oren e la serata si sintonizza nuovamente sul placido: l’intemperante maestro trascorre buona parte della serata con la mano destra impegnata dalla bacchetta e l’altra accostata al padiglione auricolare sinistro, per richiedere perennemente più suono; ma per fortuna l’orchestra non risponde per nulla alle sollecitazioni, anzi, in una serata complessivamente priva di guizzi interpretativi, occasionalmente riesce a far emergere financo qualche preziosismo individuale, come quando il clarinetto emerge nel "Balen del suo sorriso", sostenendo un Artur Rucinski sempre molto musicale nel porgere, ancorché dall’emissione sovente con nasaleggiante e sempre molto poco verdiano nel lavoro sulla parola scenica. E se gli zingari bivaccano un poco troppo è fra gli armigeri del Conte che si riconosce il suggello d’alta classe di Ciro Visco alla guida del Coro.

Detto della prova delle masse e del baritono, non pervenuto alcun fuoco fra i comprimari Carlotta Vichi (Ines), Blagoj Nacoski (Ruiz), Federico Cucinotta (vecchio zingaro) e Pietro Luppina (messo), né nel Ferrando di Sava Vemic, con acclusi tutti i vezzi tipici dei bassi slavi, è dai tre protagonisti che, in maniera alterna, giungono gli elementi di interesse della serata. Carlo Ventre nel ruolo del titolo esordisce generosamente nella romanza del trovatore, prosegue senza risparmio nel duetto con Azucena, svetta autorevolmente nel concertato del convento, ma dopo l’intervallo ritorna visibilmente indisposto nel recitativo che precede "Ah sì, ben mio", in cui incappa in qualche problema di intonazione; la tensione è palpabile, sebbene riesca a recuperare concentrazione per l’aria e la successiva temibile cabaletta, coronata da un bel si naturale, prima del tracollo finale nei pertichini dell’aria di Leonora, risolti all’ottava grave: "All’armi", e con l’onore delle armi, ma con conseguente sostituzione nell’unica replica in programma. Più omogenea è la prova di Angela Meade, che risolve anche correttamente la scrittura fiorita di Leonora, ma sempre assottigliando lo strumento, eccedendo in pianissimi flautati in una lettura lunare sì, ma fin troppo poco verdiana; e se poi è indubbio come l’adeguatezza del peso specifico sia invalutabile in una recita en plein air (peraltro caratterizzata da un’amplificazione tutt’altro che ineccepibile) di certo, invece, la dizione è parecchio deficitaria, tanto da instillare il dubbio che il significato di quanto cantato le sia oscuro. Dubbio che non s’adombra neanche lontanamente, invece, nel caso dell’altra protagonista, Violeta Urmana, lituana di nascita, naturalizzata italiana, tanto nella lingua quanto nello stile, che giganteggia come Azucena. Ritornata da qualche anno alla corda mediosopranile, e con successo, vanta ancora una notevole estensione, sempre salda e a ben fuoco; fuoco che peraltro non manca nell’accento, tanto nelle sciabolate in acuto quanto negli affondi di petto, sempre dominato da una solida amministrazione tecnica, che le consente una grande varietà espressiva. Avrebbe dovuto intitolarsi “Azucena” nelle prime intenzioni di Verdi, poi la gestazione del progetto col librettista Cammarano – di cui fortunatamente esiste ampia documentazione epistolare – cambiò il corso delle cose; ma in una notte placida palermitana di metà luglio, almeno per una volta, l’opera è tornata ad intitolarsi come Verdi avrebbe voluto.


 

 

 
 
 

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