L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Si ridesti il leon d’America

di Antonino Trotta

Ernani inaugura la stagione 2021/2022 del Teatro Municipale di Piacenza: se il trionfo di Gregory Kunde è prevedibile ma non scontato, spiccano nel parterre vocale e destano accesi entusiasmi anche Ernesto Petti e Francesca Dotto. Fiacca la concertazione di Alvise Casellati, perplessità sulla regia di Gianmaria Aliverta.

Piacenza, 19 dicembre 2021 – Ernani è una vera dannazione: tanto sublime nel materiale musicale, romantico e ruggente, quanto spicciola nella trama, per riuscire appieno essa domanda al teatro chiamato al cimento risorse preziose su ogni fronte. Per l’Ernani che inaugura la stagione 2021/2022 il Teatro Municipale di Piacenza copre, col consueto valore, il confine del canto facendo appello a un trio di protagonisti di grande rilievo.

Gregory Kunde è un monumento vivente all’arte tenorile e in quanto tale si ammira anche a fronte di qualche segno del tempo. I quasi quarant’anni di carriera, costruiti a suon di ruoli che fanno tremare le vene ai polsi, si riflettono tutti in un canto tecnico, consapevole, cerebrale, un’indistruttibile corazza che quest’Ernani dal temperamento pugnace e dallo squillo tuttora elettrizzante indossa per venire a capo di ogni difficoltà. Se già la scena di sortita «Come rugiada al cespite», affrontata con piglio cavalleresco, è sufficiente a valutare la statura del vocalista e dell’interprete, l’aria aggiunta «Odi il voto, o grande Iddio» – nel finale II alternativo – manda in autentico visibilio il Municipale tutto: con l’impetuosa e ruggente cabaletta «Ah! Sprezzo la vita» il leon d’America s’impone quale massima espressione del tenore belcantista e dell’eroe romantico, capace di scolpire il fraseggio con accenti eroici e incendiari, senza sacrificare la beltà della linea di canto, sorvegliata e mai dimentica di colori e sfumature. Tale maestria ci lascia senza fiato, chapeau!

Non è meno entusiasmante Ernesto Petti nei panni di Don Carlo: voce a palate, granitica, ricca, rotonda, emissione solida, bella presenza, il baritono salernitano ha tutte la carte per imporsi all’attenzione e diventare artista di riferimento in questi grandi ruoli verdiani, specie se limerà quelle piccole angolosità che qui e lì macchiano una prova altrimenti eccezionale. Come interprete, al di là dell’encomiabile attenzione a colori e dinamiche, Petti sa coniugare il suo Don Carlo secondo paradigmi differenti: inizialmente irruento, imperioso, eppur sensibile allo struggimento amoroso – «Lo vedremo, veglio audace» è minacciosa, «Vieni meco, sol di rose», tutta cantata a mezza voce, freme di regale desiderio –, il suo Don Carlo sembra quasi trasfigurarsi nella scena d’apertura del III atto e fregiarsi di un fraseggio più aristocratico e misurato.

Onore anche a Francesca Dotto che viene a capo di una parte ostica come quella di Elvira. Se le agilità della cabaletta non sempre sono impeccabili, la grazia dei picchiettati, la morbidezza delle seriche filature, la delicatezza del legato e il brio del trillo ben rendono la vivacità della fregola amorosa che quest’impervio passo descrive e la ammantano di una femminilità decisamente fascinosa. Certo, la tessitura grave rimane un problema e Dotto sacrifica una più efficace incisività in favore di un’emissione omogenea e controllata, tuttavia nella sua Elvira ribolle il fiero sangue d’Aragona e ciò si evince ora dalle insolenti puntature saettate nei numeri d’assieme, ora dall’accento audace e fiero che ben definisce la caratura di questa eroina romantica.

Fa molto bene anche Evgeny Stavinsky, Silva vocalmente valoroso e scenicamente equilibrato. Completano correttamente il cast Federica Giansanti (Giovanna), Raffaele Feo (Don Riccardo) e Alessandro Abis (Jago). Valida la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza istruito dal maestro Corrado Casati.

Alla guida dell’Orchestra dell’Emilia-Romagna “Arturo Toscanini”, Alvise Casellati non convince moltissimo. C’è supporto al palcoscenico, c’è ordine nella concertazione, quadratissima a livello ritmico, tuttavia si avverte sempre una generale fiacchezza espressiva – salvo isolati momenti come la scena che precede il duetto Ernani-Silva, ad esempio, dove Casellati riesce a creare una tensione drammatica e un’atmosfera degna di nota – che riduce la narrazione orchestrale a un mero accompagnamento: manca il respiro lirico, manca lo slancio eroico, manca il colore.

Grigiolina è anche la regia di Gianmaria Aliverta, con costumi di Sara Marcucci, scene di Alice Benazzi e Aliverta stesso, luci di Elisabetta Campanelli, proiezioni di Luca Attili e movimenti coreografici di Silvia Giordano. Nell’espressa volontà di voler imbastire uno spettacolo all’insegna della tradizione Aliverta inciampa in un grosso rischio, quello di irriderla perché non è certo uno spostamento temporale o una riambientazione a segnare il confine tra classico e moderno, né «tanti mantelli, tanti tulle, arie in proscenio e spade alzate al momento dell’acuto» sono i punti di valore di un Pizzi, di uno Zeffirelli, di uno Strehler o di un Ponnelle. Qui poi si mescolano queste pose da tradizione con elementi che, a voler essere pignoli, proprio alla tradizione non appartengono, e il risultato è un pasticcio che non disturba nella sua realizzazione complessiva – Aliverta dimostra sempre una bella percezione del palcoscenico e dell’azione – ma infastidisce, almeno personalmente, nelle sue premesse. Apprezzabili, poi, alcune idee come di abbassare il velatino e lasciare il cantante in proscenio durante la arie solistiche non è male perché, in questi frangenti in cui non succede nulla, restituisce l’idea di un primo piano sul personaggio e pone il cantante in posizione propizia all’ascolto.

Successo caloroso per tutti e punte di travolgente entusiasmo per i tre protagonisti.


 

 

 
 
 

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