L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Chopin (quasi) reincarnato

di Lorenzo Cannistra’

Mikhail Pletnev in un solo recital tutto chopiniano dal Teatro Petruzzelli. Un’occasione per assaporare ancora una volta l’arte sublime di uno degli ultimi interpreti storici della grande scuola pianistica russa

Nel bellissimo libro di Alfred Brendel Il velo dell’ordine il grande pianista austriaco si pronuncia sull’arte chopiniana esprimendo un concetto assai noto con una bella metafora zoologica: Chopin è una sorta di uccello del paradiso tra i compositori di musica per pianoforte, in quanto egli componeva partendo realmente dal suono del pianoforte. Ciò comporta che per bene interpretarlo è necessario aver acquisito una sorta di “specializzazione” derivante dall’assidua frequentazione e dedizione al suo repertorio, una particolare chiave d’accesso al segreto della sua musica, rispetto alla quale Brendel - persona autenticamente umile - riteneva di non essere abbastanza “competente”.

Del resto diversi interpreti si sono posti un problema analogo anche per la musica pianistica di Mozart. Arrau ad esempio soleva raccontare di aver abbandonato quel repertorio negli anni quaranta del ‘900 (dopo aver eseguito l’integrale delle Sonate e salvo a riprenderle in vecchiaia) in quanto non riusciva a trovare il “suo” tocco adatto alla musica di Mozart.

Tutto questo discorso, che approfondito porterebbe inutilmente lontano, s’è fatto per dire che Mikhail Pletnev, uno dei pochi miti del pianoforte rimasti in questo inizio di XXI secolo, poco si cura di certi scrupoli di coscienza, confidando evidentemente in una maestrìa tale da poter affrontare qualsiasi repertorio marcandolo con il segno unico della sua personalità. Che sia Beethoven, Liszt, Mussorsgky, la missione di Pletnev non cambia. Il grande pianista di Arcangelo – estremo nord della Russia europea – , erede di quella tradizione pianistica russa che affonda le radici in Anton Rubinstein, non ha bisogno di suonare Chopin per dimostrare di conoscere l’alfa e l’omega del pianoforte e tutto ciò che vi sta in mezzo. La sua ricerca delle potenzialità espressive dello strumento è un processo che sembra non avere fine e che, giunto l’artista ad un’età più che matura - Pletnev è classe 1957 - , può riservare proprio in questa stagione i frutti più preziosi e consapevoli.

Il concerto del 15 febbraio al Teatro Petruzzelli, trasmesso come sempre in diretta streaming, ne è stato un esempio significativo. Se non proprio di reincarnazione, si è trattato comunque di una immedesimazione profonda nell’arte pianistica del genio polacco. Con ciò non si vuol dire che Pletnev non sia rimasto Pletnev: certe scelte di tempo, di dinamiche e agogica sono così personali da rasentare l’arbitrio e la bizzarrìa cui ci ha abituato negli ultimi anni, ad esempio, un Pogorelich.

Ma due sono gli aspetti che a mio a parere vengono colti in modo eccezionale dal pianista russo: il tratto aristocratico e la nobiltà nella declamazione, da un lato, e un modo di suonare che sembra somigliare a quello dello stesso Chopin, almeno stando alle testimonianze dell’epoca. E’ noto che al musicista polacco, uno dei più brillanti virtuosi dell’epoca, veniva spesso rimproverato di suonare in maniera troppo debole, adatta più al salotto che ad una sala da concerto. Pletnev invero suona sempre come se la partitura fosse illuminata da una mezza luce; il suo è uno Chopin quasi in punta di piedi, ma in questo egli coglie forse come nessuno lo charme che il pianista-compositore esercitava sicuramente presso i suoi contemporanei. Ben più dello Chopin che scoppia di salute, rubizzo e positivo di Artur Rubinstein, per capirci.

Il recital parte bene. Forse proprio questa Polacca op. 26 n. 1, dal carattere umbratile, rappresenta l’esecuzione più equilibrata del concerto, insieme a qualcuno dei Notturni. Semplici e nobili le belle melodie, discreto il colore di tutto il pezzo, sia pur calato nelle personalissime dinamiche offerte dal pianista russo.

Nella Fantasia op. 49 cominciano le “bizzarrìe”. I tre rintocchi di ottave, così spesso ricorrenti nell’opera, eseguiti come se si trattasse sempre di una nuova introduzione, come cellula isolata indifferente all’andamento corrente; la sezione centrale, sospesa in un tempo interminabile; varî raddoppi non scritti sia al basso che addirittura di tremoli (!); nei crescendo e nei momenti eroici sentiamo il suono tonante, sì, ma anche una strana esitazione, un non volersi lanciare dove o nel modo in cui si è soliti ascoltare questa Fantasia. Nell’insieme però l’interpretazione è di grande potenza inventiva ed estremamente interessante.

Meraviglie poi nella Barcarola op. 60. Qui davvero la fantasia di Pletnev sembra inesauribile. Di indicibile bellezza le voci sottolineate dalla mano sinistra (mai sentite così chiare e “protagoniste”), le sospensioni e i languori mai ad effetto, ma rispondenti a precise logiche musicali. Il pensiero, più che all’imbarcazione dolcemente sospinta dalle onde, va ai sognanti passeggeri il cui sguardo è rivolto costantemente al cielo stellato.

Opaca e deludente invece la Polacca-Fantasia op. 61. Qui la ricercatezza sonora e agogica mal si fonde a mio avviso con la frastagliata complessità di questo pezzo, croce e delizia di molti pianisti. Ne viene fuori un’interpretazione nella quale si fatica a intravedere un’idea di fondo, ma si percepisce solo un insieme di particolari a volte avvincenti ma che poco si fondono con quello che Chopin sembra abbia da dire in questo pezzo.

La carrellata di Notturni nella “seconda” parte del concerto (non c’è in realtà un intervallo) offre un tesoro di raffinatezze e un saggio di altissima classe, insieme a qualche inspiegabile distorsione nella lettura del testo. Difficile infatti comprendere ad esempio come mai il Più lento della sezione centrale del Notturno op. 48 n. 2 diventi in realtà un “Più mosso”, se non ipotizzando che l’interprete non condivida tout court l’indicazione dinamica. Straordinari invece i Notturni op. 55 n. 1 e op. 27 n. 1, potentemente sottratti a certa routine esecutiva, e svelati in un’insolita bellezza e varietà di accenti.

Il recital si conclude con la arcinota Polacca op. 53 nella quale Pletnev non lesina la potenza pura, l’agilità delle ottave alla mano sinistra, ma anche tirando fuori dove può (vedi l’episodio calmato poco prima della ripresa) delle voci secondarie che rimangono ignorate dalla maggior parte degli interpreti.

Sì, forse parlare di reincarnazione è eccessivo, ammesso (e per niente concesso) che la reincarnazione esista. Ma ci fa piacere che ogni tanto arrivi a farcelo credere qualche angelo del pianoforte – o anche arcangelo, ci accontentiamo – come Pletnev.


 

 

 
 
 

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