L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La lunga attesa

di Roberta Pedrotti

Francesco Meli e Maria Agresta affrontano alla Scala per lo streaming un repertorio ardente duettando fra Otello, Manon Lescaut e Andrea Chénier. Per un repertorio che non deve essere solo una sfida di decibel, non mancano spunti interessanti in un approccio più lirico e sfumato, benché l'ascolto suggerisca cautela nel perseguire questa strada. Più dell'attesa di nuovi debutti, intanto, pesa quella del ritorno alla normalità, sottolineata con parole di affetto e speranza da Nicola Luisotti sul podio.

Il redivivo Arrigo saluta Milano intenta alla ricostruzione dopo l’assalto del Barbarossa. La serata scaligera in diretta streaming inizia in modo anche simbolico con la sortita “La pia, materna mano” dalla Battaglia di Legnano; Francesco Meli la canta con il trasporto franco e cavalleresco e la matura vocalità lirica che si confà a questo primo Verdi, l’unico veramente risorgimentale. Il programma di questo galà operistico diretto da Nicola Luisotti nella platea del Piermarini, però, vira presto verso il secondo Ottocento e il Novecento. Ecco, dopo gli anni di galera e la sinfonia di Stiffelio, il Verdi estremo di Otello (la canzone del salice, “Dio mi potevi scagliar”, “Già nella notte densa”), il giovane Puccini scalpitante di torrido eros (“Tu, amore, tu?” da Manon Lescaut), la musa più delicata di Catalani fra le atmosfere nordiche e leggendarie di Lorelay (preludio) e le nostalgie di Wally (“Ebben? Ne andrò lontana”), il verismo in cornice storica di Giordano (“Ecco l’altare” da Andrea Chénier), il contemporaneo Marco Tutino con l’intermezzo dalla Ciociara (quale che sia l’etichetta che si vuole attribuire al suo stile, la continuità di linguaggio con la Giovane Scuola è patente).

Prevedibile, ma non meno lodevole l’ottima prova dell’orchestra scaligera in un programma in cui ha buon gioco nell’esibire familiarità con il repertorio, consuetudine sinfonica e vocazione operistica, cantabilità, omogeneità di suono e sicurezza tecnica. Luisotti non aggiunge granché; quantomeno, non offre grandi spunti interpretativi, non accende l’interesse, ma accompagna con buon mestiere e convinzione.

L’attenzione, viceversa, non può che essere catalizzata dalle voci di Maria Agresta e Francesco Meli alle prese con tali cimenti, tanto più che la serata ha la sua platea non nella presenza viva, concreta e naturale, ma nella fossa dei leoni virtuale, dove non si aspetta altro che pontificare e dettar sentenze, meglio se estreme o a sproposito. Inutile, fuorviante innalzare i vessilli di Del Monaco o Merli, così come invocare lo spettro di Tamagno per benedire un Otello più lirico. La definizione del repertorio dipende da molte variabili - proiezione e peso vocale, estensione, fraseggio, stile, temperamento sono solo alcune - e non da regole ferree incise nel marmo. Ascoltiamo Meli senza scordare la storia, ma concentrandoci su Meli: al netto delle limitazioni dell’ascolto in streaming, non si può dire che la voce non sia bella, che non la gestisca con consapevolezza, che non sia attento a legare, sfumare, che non onori tutta la tessitura. La voce trova il suo terreno d’elezione quando può liberarsi in frasi più ampie e luminose, ma l’articolazione chiarissima del testo resta un punto di forza anche nei passi più insidiosi per le caratteristiche del tenore genovese. Tuttavia, un programma così strutturato, se mostra la sicurezza di Meli, sembra anche ricordare la necessità della cautela nell’approccio a questo repertorio, che canta, sì, ma in cui la voce non si percepisce ancora del tutto comoda, è ben controllata ma non pienamente a proprio agio. L'artista stesso è accorto, ma ancora un po' guardingo. A soli quarant’anni c’è tempo, insomma: un tenore della natura lirica e delle qualità di Meli può senz’altro affrontare anche parti più spinte o drammatiche, ma senza necessità di forzare le tappe o di arrivare a tutti i costi a questo o quel titolo quando può brillare in tanti Gabriele Adorno, Riccardo, Ernani o in tanti Requiem. Stasera ascoltiamo spunti interessanti, ma anche l’esigenza di un cammino ben misurato e prudente.

Un discorso simile si può fare per Maria Agresta, ma con qualche riserva in più, perché il soprano campano ha senz’altro una bella vocalità, un fraseggio mobile e curato, una dizione chiara e una bella sensibilità dinamica, ma fa avvertire più d’un segno di stanchezza. Desdemona è un suo sicuro cavallo di battaglia, di Wally coglie il lirismo fremente, ma Manon Lescaut e Maddalena di Coigny mettono in guardia: troppo, o almeno troppo presto. Per una così pregevole Mimì, Liù, Gemma di Vergy, Hélène non c’è davvero bisogno di andare oltre a rischio di impoverire la mezzavoce e affaticare uno strumento tanto prezioso di soprano lirico duttile e propenso anche all’agilità. 

Presi in queste considerazioni, ascoltiamo la prima dichiarazione d’amore fra Andrea Chénier e Maddalena di Coigny, il presago “fino alla morte insieme”, pensiamo a quanto possa essere bella un’idea lirica, sfumata e ben articolata di questo repertorio, come possa essere pericolosa, però, se non si maturano il sostegno e l’ampiezza necessari. Il duetto finisce e le parole di Nicola Luisotti ci scuotono da normali considerazioni su voci, musica, interpretazioni: la situazione non è normale, invece delle reazioni del pubblico c’è il saluto del maestro alla telecamera. Poche frasi semplici e sentite sul desiderio di ritrovarci, sul dolore di questi mesi, sul valore dell’arte, sulla speranza di un nuovo abbraccio in teatro. A queste ci uniamo. Con garbo e a tempo verrà il momento di tornare a ragionare anche sulle scelte di repertorio, ma dal vivo, insieme.

 


 

 

 
 
 

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