L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Pochi ma buoni

di Alberto Ponti

Un programma, classico e impegnativo allo stesso tempo, premia la duttilità dell’orchestra I Pomeriggi Musicali che anche nel grande repertorio sinfonico nulla ha da invidiare a formazioni di organico più ampio

TORINO, 8 settembre 2022 - Per ironia della sorte, il concerto con sottotitolo ‘Luci britanniche’ viene a cadere a distanza di poche ore dall’annuncio della scomparsa di Elisabetta II del Regno Unito. In realtà, come evidenzia Stefano Catucci sul palco della sala grande del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino nella sua introduzione alla serata, l’impaginato rimanda a esperienze molto diverse di autori che, pur non essendo britannici per nascita e formazione, ebbero sull’isola storiche affermazioni, come Haydn con le sinfonie ‘londinesi’, o tradussero sul piano musicale (‘Scozzese’ di Mendelssohn) il fascino paesaggistico di una terra d’elezione. La Gran Bretagna è da sempre parte inscindibile dell’identità culturale europea e continuerà ad esserlo, nonostante il recente ‘strappo’ politico inaugurato dalla Brexit.

L’Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano, ormai prossima al prestigioso traguardo degli ottanta anni di attività, guidata dal suo direttore stabile James Feddeck si presenta in splendida forma con un ottimo bilanciamento del suono tra archi, legni e ottoni e, nelle sue dimensioni cameristiche, non fa rimpiangere compagini più robuste e nutrite.

Il brano di esordio, One di James MacMillan (1959), è di dimensioni molto contenute ma non scorre invano e lascia nella nostra memoria una sensazione persistente di delicatezza soffusa, evidente nel trattamento del materiale tematico di derivazione popolare. La complessità dello stile raffinato di MacMillan, tra i non molti autori del panorama contemporaneo ancora in grado di emozionare un pubblico di non specialisti, si intuisce al primo ascolto senza che tale caratteristica comprometta la godibilità di un pezzo che raggiunge in eguale misura cuore e cervello.

Tra le vette del magistero strumentale del primo classicismo, la Sinfonia n. 104 in re maggiore (‘London’), composta nel 1795 da Franz Joseph Haydn (1732-1809), disvela, nella lettura di Feddeck, un dinamismo non certo inaspettato ma sovente messo un po’ in ombra da esecuzioni che ne privilegiano l’aspetto monumentale. La giovane bacchetta statunitense elimina i ritornelli e restituisce al pubblico di MITO Settembre Musica una concertazione scattante e luminosa, assecondato da un’orchestra attenta a non perdere ogni dettaglio e a valorizzare, non solo nel tema con variazioni del secondo movimento, la varietà timbrica e dinamica che lascia alle spalle i preziosismi del secolo galante per approdare a una sensibilità quasi romantica in un affascinante gioco di chiaroscuri. Dopo l’imponente introduzione dell’Adagio, dove Haydn non teme di iniziare una sinfonia con un gesto di regalità illuministica nei confronti della tonalità costituito da una quinta e una quarta vuote a piena orchestra, l’Allegro scivola via con scintillante spontaneità, allo stesso modo del Minuetto e della perfetta macchina contrappuntistica dello Spiritoso conclusivo.

L’altrettanto celebre Terza Sinfonia in la minore op. 56 (‘Scozzese’) di Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847) ebbe, a partire dai primi schizzi del 1829, una lunga gestazione di oltre dieci anni, ma nulla si avverte di tale rovello nell’alata versione definitiva datata 1842.

L’interpretazione dei Pomeriggi Musicali strappa applausi scroscianti alla versatilità di un gruppo che passa con naturale scioltezza e senza soluzione di continuità (il concerto è privo di intervallo) dal classicismo haydniano al pieno romanticismo dell’autore tedesco. Nella partitura mendelssohniana emergono attimi di assoluto rapimento, anche grazie a prime parti davvero ispirate. La resa del clarinetto del tema principale dell’Allegro un poco agitato è una delle migliori che ci sia mai accaduto di ascoltare, amabile connubio tra intonazione impeccabile e vellutata energia. Feddeck dipinge con efficacia pittorica e fraseggio curato nei dettagli il paesaggio delle Highlands, con tratti di accesa e autentica passione nel vasto primo movimento e nel brillante Vivace non troppo a seguire, sorta di Scherzo tanto atipico quanto geniale, per approdare, dopo l’oasi lirica dell’Adagio (dove i pizzicati da manuale esprimono al meglio la coesione degli archi), agli accenti da antica leggenda nordica del finale.

L’indiscusso e sincero successo tributato dall’intera platea a un’orchestra italiana di alto livello, dall’importante tradizione e dal futuro assicurato, ci conforta sullo stato dell’arte delle sette note nel nostro paese, di cui la rassegna MITO rimane una vetrina del massimo prestigio.


 

 

 
 
 

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