L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Niente eros: stasi e caos

di Sergio Albertini

Manon Lescaut torna a Cagliari dopo quindici anni in una produzione francamente dimenticabile sotto ogni punto di vista.

CAGLIARI, 14 ottobre 2022 - L'anno in cui fu rappresentata per la prima volta la Manon Lescaut di Puccini (1893) è lo stesso anno in cui venne dipinto L'urlo di Munch, quello dell'uomo che preme le sue mani sulle orecchie,e apre la bocca, forse per un urlo strozzato. Ecco, io, alla fine di questa esecuzione al Lirico di Cagliari, mi sentivo proprio così.

Cominciamo con ordine. Si tratta di una nuova produzione, nata dalla collaborazione tra diversi teatri di tradizione (il Giglio di Lucca, il Pavarotti-Freni di Modena, il Galli di Rimini, l'Alighieri di Ravenna, il Verdi di Pisa, il Comunale di Ferrara) e la Fondazione lirica cagliaritana. Cosa buona e giusta, che dovrebbe essere – in tempi così incerti per l'economia di una istituzione di questo tipo, e non solo – ordinaria amministrazione. Il nuovo spettacolo, andato in prima nel gennaio 2022 a Lucca, è affidato alla regia di Aldo Tarabella, che di Lucca è anche direttore artistico. Ed è, a mio modesto avviso, imbarazzante. Nelle immancabili note di regia (che spesso promettono molto più di quanto poi si vedrà), si legge: “abbiamo creato un allestimento basato su un unico elemento poetico: un palazzo monumentale che, al pari dei sogni e delle ambizioni della protagonista dell'opera, perderà pezzi con il procedere della vicenda, si sgretolerà un po' alla volta, sino alla definitiva metamorfosi finale, in cui prenderà le forme di uno scoglio, ultimo appiglio alla vita”. Mi dico: non sarà forse un richiamo e un omaggio allo storico allestimento del 1981 scaligero (più volte ripreso) delle Nozze di Figaro di Strehler, dove, atto dopo atto, quei saloni vedono da un lato avanzare la decadenza e l'abbandono in odor di rivoluzione ? No. Il primo atto di questa Manon Lescaut vede due tronconi d'un palazzo nobiliare, l'uno dietro l'altro (scene di Giuliano Spinelli), in una prospettiva fortemente obliqua (che richiamano le prospettive forzate verso l'alto di Margherita Palli nella Tosca a firma di Ronconi, Scala 1997). Per chi poco conosca il libretto, quell'affollarsi di signore in costumi di fine '800 (disegnati da Rosanna Monti), alcune valigie, l'arrivo di Manon, l'invito a pranzo... tutto è come sospeso in un limbo immaginario (e immaginato). L'immobilità – anche gestuale e mimica – del coro, schierato lungo tutto il palcoscenico, l'orrendo can can inserito a mo' di coreografia, così come il girotondo delle suorine (cos'è? uno Zeffirelli dei poveri?), il prelato che si siede assieme ad una dama con ombrellino su una valigia: il primo atto passa così. Il secondo vede gli stessi due elementi architettonici affiancati (si separeranno per lasciare un varco da cui entreranno le guardie), nessun traccia di quello sgretolamento promesso; siamo all'insegna del '700 (dai costumi al divanetto al paravento) e dei coriandoli dorati: pessimo far entrare il maestro di ballo con rosa in bocca (olè!), o farlo isolare dietro il paravento – con vaghi ammiccamenti di amplesso – con una delle ballerine. Nel terz'atto (di certo, il più bello e il meglio risolto) ancora un frammento architettonico sghembo con una grata (la prigione), adagiato su una scalinata che si proietta verso il buio (efficaci e suggestive le luci a firma di Marco Minghetti); pur nell'eliminazione di ogni riferimento didascalico, l'atmosfera rispetta perfettamente la drammaturgia. Qualche smaccata incongruenza (il lampionaio è sostituito da un facchino che trasporta un collo sulle spalle), qualche tentativo di 'aggiornamento' con un paio di prostitute che (il gesto è comunque poco chiaro) si tagliano di una ciocca di capelli, lanciata rabbiosamente per terra (voleva essere un ricordo delle proteste delle donne iraniane, ma ha avuto la stessa efficacia della protesta ad uso tik tok del lancio della salsa Heinz contro I girasoli di van Gogh). Il quarto atto, dietro il velario, vede ruotare di 18° (ah, ancora Ronconi?) l'elemento scenico del terzo, per mostrare uno spuntone di roccia: dai miei antichi studi, riconosco le sedimentarie stratificate, che dovrebbero evocare la “landa desolata”. Neppure tanto desolata. Sulla scena giacciono almeno sei corpi (in nero) che neppure son morti, ogni tanto rotolano su sé stessi o hanno come degli spasmi (una arriva persino a strisciare per tendere la mano a Manon). Viene meno il senso di solitudine assoluta, di desolazione, di paura, di fine.

Poi, c'è la parte musicale. Due sole parole per Gianluca Marcianò, che aveva diretto Manon Lescaut solo una volta (tre recite) nel 2011 col Chelsea Opera Group in forma di concerto. Un muro di suono eretto con mano pesante tra fossa e palcoscenico, un'orgia acustica che spesso ha coperto le voci (come quella di Edmondo, o parte del duetto tra Manon e Des Grieux). Marcianò ha spesso trasformato il tessuto orchestrale in direzione di una potenza sinfonica quasi novecentesca, tra Mahler e Strauss, incurante del suo rapporto con le voci (e quelle percussioni, così eccessive!).

E le voci. Ora, negando al pubblico cagliaritano Yoncheva e Alagna (di scena a Milano con Fedora) o Anna Netrebko (un po' ovunque in Italia), il teatro sardo offre spesso ottimi professionisti, corretti, ma incapaci di lasciare un segno interpretativo da ricordare. Metti Maria Teresa Leva, Manon, al suo debutto nel ruolo: è uno schietto soprano lirico che ha in repertorio Liù e Micaela, ma che ha affrontato anche ruoli drammatici come Leonora o Aida. La sua Manon restituisce un soprano dalla tecnica solida, dl volume non eccessivo, dal timbro abbastanza anonimo, ma – e questo spiace - dall'interpretazione pallida. Non c'è giovinezza, non c'è soprattutto, nel bellissimo duetto con Des Grieux, un filo di passione, di erotismo. Tutto sul filo di una esecuzione corretta delle note; forse, solo nel IV atto, l'aria “Sola, perduta, abbandonata” ha il giusto pathos. In più, (complice una regia che non si è adattata alla fisicità del soprano: si vedano gli inginocchiamenti, alquanto goffi e inadeguati), scenicamente deve ancora conquistare il personaggio (da rifinire quei gesti capricciosi alla toilette).

Se la Di Leva rimane apprezzabile, meno lo è Caimi, tenore molto caro alle scene cagliaritane. Un canto perennemente sfogato (nonostante certi tentativi di assottigliamento della voce alla ricerca di piani e pianissimi), troppo stentoreo e fuori fuoco nel disegnare Des Grieux. Ad onta di qualche acuto ben proiettato, la voce è come se restasse 'arrotolata' tra palato e guance, appesantita da un vibrato largo, da un permanente ristagno attorno alla consonante 'n'. Anche lui, nel duetto con Manon, è privo di ogni passione, di ogni sensualità, di qualsiasi forma di erotismo. Insieme, su quel divano, i due sembrano vecchi compagni di Comunione & Liberazione che ricordano l'enciclica Deus Caritas est di Benedetto XVI.

Il Lescaut di Dario Solari ha timbro brunito, dizione scultorea, ma a tratti imprigiona il suo canto in cascami veristi inadeguati; stilisticamente corretto il Geronte di Petan Naydenov; buono l'Edmondo di Giuseppe Infantino (come detto prima, purtroppo coperto dall'onda sonora proveniente dalla fossa orchestrale), ottimo il Musico di Sonia Fortunato (il cui canto era scenicamente accompagnato da due servi di scena che agitano un velo azzurro, come s'usa per evocare il mare);completavano il cast Mauro Secci (maestro di ballo), Alessandro Frabotta (l'Oste/Comandante di Marina), Guerino Pelaccia (sergente degli Arcieri), Mauro Secci (lampionaio) e le quattro voci del Madrigale (Barbara Crisponi, Graziella Ortu, Giuliana Porcu, Caterina D'Angelo). Magnifica la prova del coro, preparato da Giovanni Andreoli, penalizzato da una regia che si riduce a far muovere le loro manine (come tante piccole statuette della Regina Elisabetta) alla fine del primo atto (“ciao, Manon!”) e del terzo atto (“ciao, cortigiane!”).

Una riflessione: si è manifestato un grand'entusiasmo perché Manon Lescaut è tornata sulle scene cagliaritane dopo quindici anni. Attendiamo Giulio Cesare e Alcina, Der Freischütz e Fidelio, Wozzeck e The Rake's progress.

Sergio Albertini


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