L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il fuoco che scioglie le nevi

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia accoglie, con tutti gli onori, il ritorno di uno dei ‘mostri sacri’ del pianismo contemporaneo, Evgeny Kissin, che esegue sontuosamente il Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 in re minore op. 30 di Sergej Rachmaninov; la direzione è di Gianandrea Noseda, che nel secondo tempo esegue la Sinfonia n. 1 in sol minore op. 13 “Sogni d’inverno” di Pëtr Il’ič Čajkovskij.

ROMA, 1 dicembre 2023 – L’accoppiata Čajkovskij/Rachmaninov è quanto di più ‘classico’ la musica russa abbia prodotto a cavallo fra 800’ e 900’. Ambedue ammalianti melodisti, romantico il primo, romanticamente ‘attardato’ il secondo, Čajkovskij e Rachmaninov formano un dittico che conquista il pubblico senza molto sforzo. Se, poi, le due composizioni in programma sono il Terzo concerto di Rachmaninov e la Prima di Čajkovskij, il successo è praticamente assicurato.

Pietra miliare del pianismo novecentesco, il Terzo di Rachmaninov occupa il primo tempo ed è, certamente, il piatto forte della serata. Mercé, naturalmente, in primis dell’esecutore. Pianista di fama mondiale, consacrato all’Olimpo dei più grandi già da molto tempo, Evgeny Kissin è una sorta di leggenda che cammina. E suona, per nostra fortuna. Il Terzo di Kissin è praticamente perfetto, ma questo c’era da aspettarselo. Decisamente meno scontata è la naturalezza con cui esegue l’intera parte: la pedaliera viene usata con parsimonia, dando un effetto apparentemente meno ‘scenico’, ma incredibilmente più incisivo alla parte del piano. La sgranatura del suono è magnifica, raggiungendo la perfezione nel fatato passaggio centrale della cadenza del I movimento (sublime il trillo), una frase ondulata che esemplifica, quant’altre mai, il talento cristallino dell’esecutore. Ma si proceda con ordine. L’attacco del I tempo, dove Kissin ama largheggiare (come le numerose incisione e/o videoriprese di altre sue esecuzioni del Terzo dimostrano), è strascinato, eccessivamente, da un’agogica troppo larga di Gianandrea Noseda: è qui che si può godere del celebre tema, che assume (fra le pur fatate mani di Kissin) un’allure forse troppo ieratica, perdendo quella sensualità che pure è parte integrante dell’intero concerto – e, più in generale, della scrittura di Rachmaninov. Il resto del movimento si allinea più con la tradizione esecutiva e lascia risplendere l’astro di Kissin, in particolare nell’articolata cadenza, dove l’esecutore dà prova di saper passare con naturalezza dal percussionismo fisico dei ribattuti alla dolcezza di momenti soffusi, i più eterei dell’intero concerto. Il II movimento, forse, avrebbe necessitato da parte di Noseda di un’agogica, invece, più rilassata, ad assecondare l’indicazione di Adagio. Il direttore ha un piglio energico, forse, qua e là, anche troppo geometrico; Kissin è straordinario, soprattutto nei passaggi di più spedito virtuosismo. Il movimento finale è, direi, quello più riuscito. L’attacco senza soluzione di continuità con il precedente è da Kissin eseguito con rapidità magistrale, poi attacca il tema del III, dall’ethos russo, percussivo; lo sviluppo è rutilante, ma anche riflessivo (caratteristica questa, cioè la compartecipazione di queste due nature in un unico movimento, che accomuna tutte le sezioni dell’opera). Il concerto si chiude in una standing ovation, tanto Kissin è amato dal pubblico. Emozionato, timidamente sorridente, Kissin si dona al pubblico. Fra bis (tra i quali una mazurka di Skrjabin ed il celebre Preludio op. 3 n. 2 sempre di Rachmaninov) e applausi si aggiungerà quasi un’altra mezz’ora.

Sovente accomunati dalla florida facilità melodica, Rachmaninov e Čajkovskij non trasmettono musicalmente la vita in maniera identica, anzi. La Prima di Čajkovskij ne dà un perfetto esempio. Il secondo tempo è occupato proprio dall’esecuzione di quest’ultima, nella quale Noseda convince certamente di più rispetto all’esecuzione del concerto Rachmaninoviano. Mostra, innanzitutto, più tocco: il tremulo velo degli archi in apertura del I movimento (“Sogni di un viaggio d’inverno”) ne è la dimostrazione. Più in generale, Noseda tratta con il velluto (e con un certo respiro) le innevate, malinconiche melodie del I e del II movimento (“Terra desolata, terra di brume”), quello caratterizzato da più delicata malinconia. Il suo naturale piglio geometrico, netto, opera bene nel III, con i suoi ritmi cangianti, e nel IV, soprattutto nella parte finale (giacché la prima è un Andante di umore nero) dove la roboante tensione è tenuta vivida fino alla fine. Gli applausi sono generosi.


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