L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fra Strauss e Šostakovič

 di Stefano Ceccarelli

Manfred Honeck torna in Accademia con un corposo concerto: tre pezzi di Johann Strauss figlio (l’ouverture da Eine Nacht in Venedig, la polka Una gita in treno op. 281 e il valzer Voci di primavera op. 410), il Concerto n. 1 in la minore per violoncello e orchestra op. 33 di Camille Saint-Saëns (solista è, al suo debutto, Andrei Ioniță) e, infine, la Sinfonia n. 5 in re minore op. 47 di Dmitrij Šostakovič.

ROMA, 24 gennaio 2025 – Manfred Honeck, presenza stabile nei cartelloni dell’Accademia di Santa Cecilia, torna con un programma che dal tardo romanticismo arriva fino all’avanguardia russa. Si inizia con tre pezzi di Johann Strauss figlio, di cui ricorre il bicentenario dalla nascita (1825). Dotato di impressionante talento melodico, Strauss figlio è stato la colonna sonora della Vienna elegante della seconda metà dell’800, autore amatissimo e prolifico quant’altri mai, vera colonna dei concerti di Capodanno (über alles, ovviamente, quello al Musikverein). Honeck esegue tutti i pezzi con brillante gestione dell’orchestra, vivace agogica, senso del rubato (essenziale in brani come quelli di Strauss): l’ouverture dall’operetta Eine Nacht in Venedig, che antologizza le varie atmosfere della pièce (intrighi, notturni, scene d’amore), riesce divertente e luminosa; simpaticissima, vivace la polka Una gita in treno – uno di quei pezzi che rendono felice persino il pubblico più austero (con tanto di strumentista al fischietto con il berretto da capotreno); assolutamente stupenda, poi, l’esecuzione di Frühlingsstimmen (Voci di primavera), fra i pezzi più noti di Strauss, dove Honeck non solo imprime un’agogica autenticamente frizzante, ma cesella la raffinata orchestrazione – come si nota nella delicatezza degli svolazzi fioriti dei legni, che profumano il tema principale. Il pubblico è già in visibilio. Il primo tempo, però, prosegue con un’esecuzione non altrettanto trascinante. Non si può dire che direttore o orchestra non facciano bene il loro mestiere, anzi; la sensazione, però, è che manchi qualcosa al Concerto n. 1 in la minore per violoncello e orchestra op. 33 di Camille Saint-Saëns. Potrebbe, certo, essere il cambio in extremis del solista, l’atteso Mischa Maisky, il quale defeziona per problemi di salute e permette al pubblico romano di conoscere un virtuoso dalla tecnica cristallina come il giovane Andrei Ioniță. Il romeno, al suo debutto nei cartelloni dell’Accademia, dà mostra di sé eseguendo con maestria tecnica l’insidiosa parte del concerto: la principale difficoltà è quella di bilanciare la scrittura di Saint-Saëns, che appare sempre apparentemente semplice, eterea, un cristallo che deve essere maneggiato, appunto, con grande cautela, con il virtuosismo aereo del pezzo, che scende, però, anche in oasi intimistiche, le quali richiedono un suono più denso. La sensazione è che Ioniță sia un tantino monocorde, sfruttando poco volumi e colori; Honeck fa il suo con l’orchestra, l’agogica non sembra risentirne. Non si può negare, comunque, la bravura dell’interprete, che piace di più (almeno a chi scrive) nei due bis con cui si congeda: uno è un pezzo dello svedese Mikael Ericsson dalle sonorità country, folk, che spagina tutti gli usi possibili dello strumento; il secondo è decisamente più classico, la bourrée dalla III Suite per violoncello di Bach.

Il secondo tempo presenta un’ottima esecuzione della Quinta di Šostakovič, capolavoro assoluto del sinfonismo novecentesco. L’orchestra mostra uno stato di grazia sotto le mani di Manfred Honeck. Il I movimento si apre con il dolore degli archi e si chiude in diafana sospensione; Honeck, nel mezzo, riesce a cogliere il cosmo del russo, tutti gli stili che più lo caratterizzano: l’ironia sardonica delle sue fanfare militari, il parossismo di alcuni momenti, in cui l’orchestra si sfoga con grande potenza e verticalizza un suono titanico. Nel II, ancora, la Militärmusik, resa netta geometrica dai tempi di Honeck, da un gesto serrato, compatto, che restituisce il senso di una sterile fanfara trasformata in accattivante motivo coreutico. Indimenticabile il Largo (III), nel quale gli impasti strumentali, venati di dissonanze, aleggiano in una dimensione sospesa, onirica, dove si solleva qualche melodia affidata ai timbri dei legni (un carillon che suona nel vuoto), calda ma spettrale, accompagnata da un basso continuo vibrato degli archi. Nel finale (IV) Honeck torna a sfrenare l’orchestra in un’esplosione di dissonanze talmente ben calibrate da risultare armoniose; il procedere della musica ‘militareggiante’ sembra inarrestabile, tranne che per una pausa centrale, cui segue una climax scandita, sinistramente, da potenti interventi di ottoni e percussioni, un crescendo maestoso che ha un sapore quasi religioso, diretto magistralmente da Honeck. La sinfonia esplode in un applauso fragoroso.

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