L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Felici debutti

  di Stefano Ceccarelli

All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia il concerto della scorsa settimana segna due debutti, quello del direttore Thomas Guggeis e del violoncellista Ettore Pagano, mentre per Sayaka Shoji, violinista, è un ritorno. Il programma comprende il Concerto per violino, violoncello e orchestra in la minore op. 102 di Johannes Brahms, Les Préludes di Franz Liszt e Tod und Verklärung di Richard Strauss.

ROMA, 14 marzo 2025 – Il concerto avrebbe dovuto presentare ben tre debutti nei cartelloni dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Al fianco del direttore, Thomas Guggeis, ci sarebbe dovuto essere lo svedese Daniel Lozakovich, praticamente quasi coetaneo del violoncellista, Ettore Pagano, che all’Accademia può ben dirsi di casa, visto che è nato e si è formato nella Città Eterna. Per motivi personali, Lozakovich non può essere presente e, al suo posto, torna, dopo diversi anni di assenza, Sayaka Shoji, violinista nipponica che ha già alle spalle una discreta carriera.

Il programma, che ruota attorno a compositori del romanticismo più maturo, inizia con il Concerto per violino e violoncello di Brahms, che mette alla prova, sùbito, i tre interpreti. Il concerto, dalla «dimensione, tanto espressiva quanto sonora, che sfugge a ogni esuberante brillantezza concertistica», ma che, anzi, presenta un’espressività «drammatica, malinconica, potenze nell’eloquio sinfonico» (definizione di Francesco Ermini Polacci, dal programma di sala), presenta in apertura dell’ Allegro (I) l’ottimo assolo di Pagano, netto nel fraseggio, pieno, intonato. L’ingresso di Shoji, con l’impasto estremamente lirico dei due strumenti, è parimenti d’effetto. Shoji possiede grande energia, orgogliosa di una linea piena, brunita, intonatissima. Il movimento, che ha carattere rapsodico, permette ai due solisti di profondersi in virtuosismi di ogni tipo, sorte di frammenti, però, di un discorso che viene ogni volta ripreso. Il dato che si ricava, già dall’ Allegro , è che il cambio in extremis del solista non ha nociuto alla qualità dell’esecuzione, che i due artisti hanno ottima intesa e, soprattutto, che Pagano si conferma, ancora una volta, artista dal gusto e dalla maturità non comuni per un ventenne. Guggeis dirige con precisione, lasciando che il senso di malinconia, il dettato prettamente romantico emerga con limpidezza. L’ Andante (II) è letto dal direttore con un’agogica persino troppo decisa, la quale toglie un po’ di abbandono lirico ad un movimento che, forse, si esagera a definire «un’elegia malinconia e struggente» (ancora Polacci). Il carattere che, anzi, mi pare emergere più nettamente è un’ariosità montana, alpestre: i due solisti, che suonano quasi sempre all’unisono, sembrano evocare echi di zampogne – trasfigurazione sonora di un paesaggio montanaro. Shoji e Pagano sono abilissimi nel profondersi in dolci passaggi, vere carezze d’amore, condite di trilli e vibrati, che palesano un controllo perfetto della linea melodica. Il concerto si chiude con un Vivace non troppo , assai ben scandito da Guggeis; i due solisti si librano in virtuosismi tzigani di notevole brillantezza, sondando tutte le possibilità dei loro strumenti. In tal senso, è merito di Guggeis se il dialogo fra solisti e orchestra è filato ben liscio: pause, rubati, accelerazioni sono state gestite dal direttore con maturo senso ritmico, aumentando l’effetto dei giochi ritmici degli strumentisti. Dopo i calorosi e meritatissimi applausi, Pagano e Shoji si congedano non prima di eseguire Vattendropper di Jean Sibelius, un pezzo tutto pizzicato, ad evocare le goccioline di pioggia.

Thomas Guggeis apre il secondo tempo con Les Préludes di Liszt. Pur amando un gesto molto segmentato, squadrato, la direzione del tedesco può dirsi efficace. Les Préludes emerge dall’orchestra nella cangiante emotività dei suoi differenti ‘quadri’, talvolta sommessi, atmosferici, talaltre, anzi più spesso, potentemente drammatici (si pensi alla gamma degli ottoni). L’impressione è certamente buona, ma forse Guggeis deve lavorare ancora su qualche nuance , almeno nelle prime sezioni, maggiormente trasognate; nelle ultime due la partitura assume un fraseggio berlioziano, con il quale Guggeis pare avere più affinità, soprattutto con la potente acme sonora che chiude il pezzo. Il miglior momento per Guggeis, però, mi è sembrato il brano conclusivo, Tod und Verklärung , di Richard Strauss. Il direttore è precisissimo nello spaginare l’agogica di questo poema sinfonico così singolare, una riflessione sulla morte ad opera di un compositore che, all’epoca della sua scrittura, era alla metà dei vent’anni. Guggeis alterna polso duro nelle frasi più tese e mano vellutata nei passaggi evocanti la trasfigurazione dopo la morte. Come sempre, quando ci si confronta con Strauss bisogna porre grande attenzione e sensibilità alla consistenza delle singole sezioni: cosa che Guggeis fa con perizia, riuscendoci splendidamente. Lo testimoniano l’incipit tragicamente strascicato, dove i legni incupiscono l’atmosfera scandita da un ritmo irregolare (l’incerto battito cardiaco di un moribondo), e la trasfigurazione finale, in cui Strauss riesce a tessere un’eterea, limpida tela sonora. Guggeis, insomma, anche grazie ad una prova eccellente dell’orchestra, bilancia armonicamente il dualismo di fondo del brano: lo slancio strumentale impetuoso (che risulta molto più netto dei Préludes lisztiani) con la sublime essenza della trasfigurazione. Perciò, si merita i più sinceri applausi.

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