Nel nido di Francesca
Francesca da Rimini di Zandonai inaugura la stagione 25/26 del Teatro Regio di Torino: la bella concertazione di Andrea Battistoni, l’elegante spettacolo di Andrea Bernard e l’ottimo parterre vocale, in cui brillano le prove dei protagonisti Barno Ismatullaeva e Roberto Alagna, assicurano il successo di una serata a lungo applaudita dal pubblico festante e numeroso.
Torino, 10 ottobre 2025 – Francesca da Rimini nasce tra i versi del quinto canto dell’Inferno come un soffio di pietà nel buio della dannazione. Nelle parole di Dante ella è figura dolente, travolta dal vento dei lussuriosi, simbolo di una passione che confonde l’amore con la colpa. La sua voce è dolce e mesta, e nella compassione del poeta c’è il riflesso di un’umanità che si lascia ferire. Ma se Dante la contempla con commozione, Zandonai e D’Annunzio l’involano in una dimensione più volitiva e audace. Nella loro Francesca, la madonna romagnola non è più vittima del peccato, ma interprete cosciente della propria scelta. La sensualità dantesca diventa qui volontà e la colpa si trasforma, finalmente, in libertà. Francesca non subisce l’amore: lo invoca, lo reclama, lo abita con la consapevolezza di chi sa che la passione può essere insieme dono e condanna. Quando le mani sue e di Paolo si sfiorano sul libro galeotto, non è la sorte a guidarle, ma un atto lucido di tremante sovranità: l’accettazione di un sentimento più forte della legge e della paura. «Quel giorno più non vi leggemmo avante», scrive Dante con pudore; Zandonai invece fa esplodere quell’attimo, riempendolo di suoni, di desiderio, di vita. E questa scintilla che Dante sfiora e Zandonai accende, s’infiamma ora sul palcoscenico del Teatro Regio di Torino, dove Francesca da Rimini inaugura con successo la stagione 2025/2026.
Andrea Bernard, tra i giovani registi più bravi in circolazione, rilegge il pomposo testo dannunziano con la contezza tecnica e linguistica propria dei grandi maestri e con la raffinata sensibilità di chi riconosce nel teatro d’opera lo specchio di una società in continuo divenire. La sua Francesca, lontana dall’immagine della martire sognante, è una creatura palpitante che attraversa il palcoscenico con l’intrepidezza di chi sceglie di amare anche a costo della rovina. Bernard la restituisce dunque all’oggi, spogliandola delle sovrastrutture decadenti per farne una donna più moderna, attraversata da un desiderio che è insieme ardore e affermazione di sé. Intorno a lei, lo spazio scenico, che poi è sempre la sua stanza, il suo nido, magnificamente costruito da Alberto Beltrame e illuminato a regola d’arte da Marco Alba, diventa luogo del presente e luogo della mente, una dimensione metafisica, popolata da figure che vestono i bei costumi disegnati da Elena Beccaro, in cui la realtà si confonde con la memoria e con l’immaginazione; una pagina bianca su cui il regista sviscera la vicenda intrecciando un’arcata narrativa di grande delicatezza e pathos, fatta di racconti in filigrana, immagini simboliche – le scarpette rosse deposte lì, dinnanzi al letto, prima del finale, parlano a noi più che a lei –, di figure retoriche e parole appena accennate che si assommano per costruire una verità teatrale, sempre eccezionalmente virtuosa e poetica, che parte sì dal testo ma individua la propria ragione d’essere nel sostegno visivo alla splendida partitura, da sola capace di essere atmosfera, scenografia, emozione ed estasi.
Di quest’ultima nulla sfugge ad Andrea Battistoni, ispirato in buca e ruggente nel proprio repertorio d’elezione, al timone dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino in forma smagliante e garante di una concertazione attenta a colori e volumi, controllatissima nei tornanti dinamici e ritmici, impeccabile nel supporto al palcoscenico, che mai sacrifica lo slancio dell’azione teatrale né il minimo dettaglio del densissimo impaginato musicale, specie là dove il sostrato musicale si fa più evanescente e dannatamente evocativo. Alla sua eccellente prova, si sommano poi quelle dei complessi del Regio, dell’Orchestra in primis – straordinario, ad esempio, il finale dell’atto primo – e del Coro del Teatro Regio poi, istruito dal maestro Ulisse Trabacchin, capace di una compattezza sonora e di una chiarezza d’articolazione che amplificano la drammaticità della scena senza mai appesantirla. L’intera macchina musicale risponde con precisione ed efficacia alla bacchetta di Battistoni, che affronta la partitura di Zandonai come un affresco in movimento, esaltandone la sensualità orchestrale, i chiaroscuri timbrici, la vertigine emotiva. Ne scaturisce una lettura calibrata e sinuosa, in cui ogni gesto trova il proprio respiro e ogni pausa la propria tensione. È una Francesca che vibra non solo nei personaggi, ma negli strumenti, nei silenzi, nella materia stessa del suono.
Nel ruolo del titolo, Barno Ismatullaeva conquista per la pienezza dell’ambrato strumento, per la sicurezza nelle sciabolate in acuto che come strali puntellano la parte, per quel fare matronale e al tempo stesso incerto, in cui la forza del temperamento si mescola alla tenerezza di una donna condannata a sentire troppo. Il suo Paolo è Roberto Alagna, bello davvero nella presenza scenica e nel timbro che la natura ha recato a lui in dono, oggi forse messo un po' più alle strette da quella scrittura così tanto sfogata, ma irresistibile per il carisma che il grande artista conserva intatto e che Paolo eredita tutto a vantaggio della propria fama. George Gagnidze, con emissione rocciosa, dà voce a un Gianciotto autoritario e bieco, Matteo Mezzaro fa appello a ottime qualità vocali e attoriali per portare in scena un Malatestino insinuante e irruento. Devid Cecconi, poi, nei panni di Ostasio, disegna l’ennesimo villano della storia con classe ed eleganza quasi belcantistiche. Le quattro dame di Francesca – Valentina Mastrangelo (Biancofiore), Albina Tonkikh (Garsenda), Martina Myskohlid (Altichiara), Sofia Koberidze (Donella) – cantano tutte benissimo e come una corale dell’anima si sovrappongono e si alternano ai pensieri di Francesca. Ottima per pasta vocale ed espressività, la delicata Samaritana di Valentina Boi. Completano correttamente il cast Silvia Beltrami (Smaragdi), Enzo Peroni (Ser Toldo Berardengo), Janusz Nosek (Giullare), Daniel Umbelino, Eduardo Martínez e Bekir Serbest, rispettivamente il balestriere, il torrigiano e il prigioniero.
Otto minuti di applausi suggellano il successo di una produzione che unisce rigore e ispirazione, segno di un teatro d’opera che sa ancora parlare al presente con voce viva e necessaria.
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