L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

In punta di bacchetta

 di Luigi Raso

La concertazione di Juraj Valčuha illumina una produzione di Tosca per il resto sfocata e confusa sotto il profilo registico. tradizionalmente efficace per quel che concerne scene e costumi, con un cast alterno ma nel complesso soddisfacente .

NAPOLI, 20 luglio 2018 - Dopo Rigoletto (leggi la recensione) prosegue all’insegna della tradizione e del calligrafismo scenografico la stagione d’opera del San Carlo con una romanissima Tosca.

Lo spettacolo, come per Rigoletto, si avvale della regia di Mario Pontiggia, sfuocata e confusa, priva di un’originale e riconoscibile idea guida; all’assenza di regia suppliscono le scene, di ottima fattura, di Francesco Zito, e i costumi, appropriati ed eleganti come sempre, di Giusi Giustino.

Lo scenografo immerge lo spettatore negli interni della Basilica di Sant’Andrea della Valle, irradiati dalla calda luce del pomeriggio romano, con l’enorme cupola posizionata obliquamente sul palcoscenico in modo da far godere al pubblico della fedele riproduzione dei bellissimi affreschi di Giovanni Lanfranco. Nel secondo atto ricrea gli ambienti sfarzosi di Palazzo Farnese affrescati dal Carracci; meno calligrafici gli spalti di Castel Sant’Angelo, dominati dall’oppressiva presenza delle insegne pontificie.

La punta di diamante di questa produzione di Tosca è tuttavia la direzione di Juraj Valčuha: una concertazione piena di fantasia, analitica, con agogica variabile e con appropriati rubati, connotata dalla giustapposizione di drammaticità teatrale e musicale, con colori orchestrali ora evanescenti e languidi, ora tellurici. Un Puccini, quello di Valčuha, a pieno titolo inserito nella temperie culturale del ‘900: negli squarci sinfonici dell’opera (penso, ad esempio, all’alba dell’Atto III) il direttore slovacco evidenzia i nessi armonici e strumentali del compositore lucchese con i contemporanei europei.

Il lavoro di Valčuha al San Carlo, a mio parere, stupisce di produzione in produzione per la sua capacità di esprimere qualcosa di innovativo anche con le partiture più conosciute e frequentate, tenendosi a distanza di sicurezza dalla noiosa e trita routine interpretativa.

L’orchestra e il coro del San Carlo rispondono perfettamente alle intenzioni del direttore: precisione, ottima qualità del suono e magnifici assoli strumentali. Un plauso al primo clarinetto per la bellissima introduzione orchestra a “E lucevan le stelle..”, al primo flauto per il suo intervento nell’aereo ingresso di Tosca e al primo violoncello.

Il coro, dal suono compatto e potente nel "Te Deum", ha fornito una delle migliori prove della stagione; da dietro le scene si percepisce assordante e opprimente durante l’interrogatorio di Mario Cavaradossi. Marco Faelli si congeda da direttore del coro del San Carlo con questa eccellente prova; buona anche la prestazione delle Voci Bianche guidate da Stefania Rinaldi.

All’inizio dello spettacolo viene annunciata l’improvvisa indisposizione del tenore titolare Brian Jadge, sostituito da Francesco Pio Galasso: il suo è un Cavaradossi che, dopo una eccessivamente tesa e misurata "Recondita armonia", si scioglie e riscalda con il procedere dello spettacolo, fino a riscuotere calorosi applausi nell’ultima aria. Dotato di buon volume, dal bel timbro, mezzi complessivamente corretti, tranne qualche nota leggermente indietro in qualche passaggio legato, è un Mario Cavaradossi innamorato, a tratti eroico.

La Tosca di Ainoha Arteta convince scenicamente grazie al physique du rôle e alle doti d’attrice: è civettuola, assalita da una improvvisa tempesta ormonale, innamorata e divorata da “sciocca gelosia” nel primo atto, una donna tormentata nel secondo e tragicamente illusa nel terzo. La voce è corposa, il vibrato è nel suo ingresso (“Mario! Mario! Mario!”) eccessivamente pronunciato, le note ci sono tutte, la “lama” è uno squarcio sonoro ben preparato e altrettanto risolto. "Vissi d’arte" è intenso, con partecipazione emotiva, ben cantato malgrado quale nota in basso non proprio messa a fuoco.

Un successo personale meritatissimo, dunque, per il soprano spagnolo che torna al San Carlo a poco più di un anno da una buona Manon Lescaut (leggi la recensione).

Roberto Frontali è uno Scarpia d’ordinaria amministrazione: dalla sua interpretazione non traspaiono il sottile sadismo del feroce capo della polizia, la laidezza dell’uomo; non si avverte la lascivia di “A doppia mira tendo il voler...” durante l’ossessione sessuale commista all’odor di incensi e inni del "Te Deum". Il volume non appare sempre adeguato nei momenti più concitati, il timbro ormai eccessivamente prosciugato e anonimo.

Nei ruoli secondari si distinguono l’Angelotti di Carlo Cigni, il Sagrestano, simpatico e con notevoli doti di attore, di Roberto Abbondanza; Nicola Pamio, nei panni di Spoletta, dopo una sortita non proprio felice per precisione e intonazione alquanto periclitante, prosegue con maggiore sicurezza e con giusta cattiveria.

Dal timbro limpido il Pastore di Pina Acierno si giova anche del bellissimo tappeto orchestrale che stende Valčuha.

Applausi molto calorosi e convinti, al termine, premiano tutti.


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